Labirinti

Simone Siliani | 08/09/2017 | Cultura Commestibile

Poema drammatico di re quello messo in scena da Archivio Zeta al Cimitero di guerra germanico del Passo della Futa dal 5 al 20 agosto: “Il Minotauro” è il testo pubblicato da Julio Cortazar nel dicembre 1947 con il titolo “I re”, nel quale il drammaturgo argentino non soltanto rovescia il mito della tradizione giunto a noi in vario modo attraverso Ovidio, Plutarco, Omero e Apollodoro, ma assorbe, indaga, drammatizza e vive i suoi temi principali nella vita contemporanea. È nel suo labirinto di scrittore e intellettuale che ci addentriamo con “I re”; è nel nostro personale labirinto interiore che siamo invitati ad entrare nella drammaturgia di Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni nel silenzio delle 30 mila lapidi di soldati tedeschi, giovani “ gli di nemici” come Minosse chiama Teseo nel loro dialogo, di cui ci scopriamo ogni volta che saliamo su questi monti così diversi e al contempo somiglianti.
Come per il Minotauro morente nel testo di Cortazar, quassù “cresce come il vento un bisogno di silenzio” ed ormai il mostro ucciso (scontto il nazismo) anima i nostri sogni e “siamo liberi” esultano i giovani ateniesi destinati al sacri cio “Ma non per la sua morte…”.
Teniamo in mano il lo rosso che Arianna dona a Teseo quale soluzione dell’enigma di Dedalo che è il labirinto, quel viaggio verso la morte che – nella gura spiraliforme (“il simulacro della chiocciola”) – giunto al punto centrale, si rovescia in un movimento contrario, dal centro verso l’esterno, dalla morte verso la vita. Ma, nel mito rovesciato di Cortazar, quel lo rosso è anche un messaggio di amore che Arianna rivolge al mostruoso fratello e che anche noi dobbiamo avere la forza di tenere in mano in questi tempi così di cili e mostruosi (come dice Minosse a Teseo promettendogli Arianna in sposa al suo ritorno dal labirinto, “Ci sono sempre gli africani per alimentare il prestigio del mostro”).
Il mostro, il disumano sconosciuto, l’insopportabile diversità per il potere è fratello dello stesso labirinto, è il suo stesso carcere ad averlo generato, proclama il re Minosse: il Minotauro esiste per volontà (o destino?) del potere e al contempo esistendo legittima il potere (“Fu necessario vestirlo di pietra perché non mandasse in frantumi il mio scettro”), perché è “l’arti cio di pietra, la sua prigione” che lo rende funzionale al potere e sopportabile a se stesso (“Qui ero specie e individuo, cessava la mia mostruosa discrepanza”). Ma è Arianna che gli riconosce l’umanità che in ne il testo di Cortazar mette in risalto. E quando, nel dialogo con Minosse, questa certezza di fratellanza di Arianna vacilla, allora Minosse la accomuna nel destino dei re (“Ora sei la regina”) e lei si smarrisce (“Ora non so chi sono”) e non riesce a fare il passo verso la libertà, l’ingresso nel labirinto (“Oh fratello solitario, mostro capace di sopra armi per no nell’assenza, di rivestire di paura la mia prima tenerezza!”).
Ecco qui il duplice drammatico motivo del testo di Cortazar: l’inevitabilità del destino dei re e del potere e la forza soccombente della libertà e della poesia. Per quanto diversi (ma non poi molto) i due re, Minosse e Teseo, sono complici nel realizzare il mito per cui sono stati creati. Certo Minosse traduce con la razionalità della parola e del pensiero l’inevitabilità di questo destino comune (“Sento la necessità quasi orribile che tu sia qui, che noi ci troviamo di fronte vicino al muro, sotto gli occhi di Arianna”) e Teseo non sopporta la ragione e agisce secondo l’istinto dell’eroe (“Non credere che ti segua nei tuoi rapidi giochi. Mi obbedisco senza troppe domande. All’improvviso so che devo sguainare la spada. Avessi visto Egeo quando mi unii ai condannati. Voleva ragioni, ragioni. IO sono un eroe, credo che basti”).
Ma l’uno è lo specchio dell’altro e le loro azioni, per quanto opposte, dirigono verso lo stesso ne: Teseo uccide Minotauro per lo stesso motivo per cui Minosse lo ha dovuto rinchiudere e Minosse confesserà a Teseo che “In fondo lo ucciderai per gli stessi motivi per cui io temo di ucciderlo. Solo i mezzi cambiano, prima o poi toccherà anche a te saperlo”, preconizzando per Teseo la terribile condanna della conoscenza, della consapevolezza.

Ma se i due re incarnano l’essenza del potere, quello assoluto del tiranno e quello sanguinario dell’eroe, è Minotauro nel rovesciamento di Cortazar – l’incarnazione dell’ideale puro della libertà. Nel dialogo con Teseo gli spiega perché non sarà la spada, né il suo sguardo giudicante che farà di lui un mito (“non è con gli occhi che si a rontano i miti. Neppure la tua spada mi si addice. Dovresti colpire con una formula, un salmo: con un altro racconto”). Il solo mezzo per uccidere i mostri è accettarli, ma questo Teseo, la società che lui rappresenta – ieri e oggi – non può, non riesce a farlo. Così gli concederà il collo per il colpo mortale, che lo libererà dal labirinto e imprigionerà lui, Teseo: “Morto sarò più io”, ma inizierà la ne di Teseo, “tu ti sminuirai, conoscendomi sarai meno, andrai precipitando in te stesso come si sgretolano a poco a poco i dirupi e i morti”. Morto il Minotauro, Teseo resterà solo ad ascoltarsi e dal suo atto, ineluttabile forse, nascerà al libertà nale (“Che ne sai tu di morte, tu che doni la vita profonda”). Il dialogo fra Teseo e Minotauro è il punto più alto del dramma: se Teseo, al culmine della razionale decisione omicida, dice che Minotauro sarà presto “un ricordo morto con il tramonto del primo sole”, il mostro risponde che lo precederà da Arianna ponendosi “fra lei e il tuo desiderio” e il trionfo del vincitore si trasformerà nella condanna per il suo trono: “Ti acclameranno gli uomini del porto. IO scenderò ad abitare i sogni delle loro notti, dei loro gli, del tempo inevitabile della stirpe. Da lì incornerò il tuo trono, lo scettro incerto della tua razza… Dalla mia libertà nale ed ubiqua, dal mio labirinto minuscolo e terribile in ogni cuore d’uomo”. E quando l’oblio avrà ingoiato la sua gura, “nascerò davvero nel mio molteplice regno. Lì abiterò per sempre, come un fratello assente e magni co”.
Il mito, la poesia è il mostro, il diverso, il molteplice e ubiquo; l’unica possibile altra realtà rispetto a quella razionale del potere, capace di scardinare la normalizzazione e la repressione di cui sono portatori Minosse e Teseo. È l’inconcepibile alterità della poesia che, morendo alla realtà, disvela nuovi e in niti mondi di signi cati: qui il Minotauro continua a vivere nei nostri sogni. Archivio Zeta così continua, al Passo della Futa, la sua ricerca e la sua indagine sulla violenza e sulla debolezza del potere, questa volta con un autore moderno che o re, nel rovesciamento del mito, una via d’uscita dal labirinto in cui tutti ci troviamo.