Antigone, ancora

Simone Siliani | 20/07/2018 | Cultura Commestibile

Torno a salire, come ogni anno, il ruvido sentiero che porta alle cuspidi architetture del cimitero di guerra germanico al Passo della Futa per il lavoro teatrale di Archivio Zeta. Come 15 anni fa, “Antigone”, il classico di Sofocle che assume nuova attualità ad ogni giro di decennio, insieme alla potenza universale del suo discorso sul potere. Resta questa l’architrave della riduzione teatrale di Archivio Zeta.

Qui al cimitero di guerra germanico, il tema del potere assume rilievi e significati drammatici: i 31.000 soldati tedeschi morti fra il 1944 e il 1945 sulla Linea Gotica sono il tributo di sangue pagato dal più tragico dei progetti politici di coagulare il potere nelle mani di un solo uomo e di un regime dispotico. Ma come angosciosamente urla Emone al padre Creonte, “Nessuna città appartiene a un solo uomo”; e alla risposta razionale di Creonte che “una città è di chi la comanda”, Emone (e la storia) può replicare solo con il più tragico dei vaticini: “Tu dovresti regnare in un deserto”.

Ed è, infatti, in questo deserto di tombe tutte uguali, di soldati semplici e korporal, nessuno innocente e in gran parte colpevoli, che vago ascoltando il dialogo disperato fra Creonte e Emone sull’assurdità del potere, mentre l’occhio cade sulle date di nascita (… 1926… ragazzini morti su questi monti, lontani dai genitori, per un disegno politico che dubito abbiano davvero mai compreso).

Il dialogo sul potere, sulle leggi della città (cioè dello Stato) dell’”Antigone”, resta uno dei capolavori della scienza politica di tutti i tempi, ma anche un capolavoro della poesia. Archivio Zeta lo rende in tutta la sua drammaticità, in un equilibrio straordinario fra passato, presente e una dimensione atemporale dove si collocano poche opere dell’ingegno umano. Creonte è prima all’apogeo del potere assoluto e poi rovina tragicamente, l’uomo e il regime.

Ma il dilemma, sempre attuale, dell’obbedienza cieca alle leggi dello Stato quale essenza del potere, può apparire anacronistico, oggi che il potere si esplica sempre di più attraverso forme partigiane se non personalistiche finalizzate non al bene comune ma a quello personale o della propria cerchia di fedelissimi. Eppure qui sono posti i temi fondamentali della crisi dei regimi politici moderni, democrazia compresa.

In primo luogo il tema del potere assoluto delle leggi, per servire le quali soltanto il potere si materializza in un uomo o nel trono: “E’ impossibile penetrare a fondo anima intelligenza carattere di un uomo, se costui non ha rivelato se stesso nell’esercizio del potere e delle leggi”, dice Creonte. E quindi il potere deriva direttamente dalle leggi che, in quanto tali, sono giuste: a queste soltanto deve rispondere l’uomo che detiene il potere e, del resto, solo in virtù di essere egli si manifesta pienamente come uomo. Ma chi stabilisce che quelle leggi siano giuste in assoluto e, dunque, che da esse scaturisca un potere perfettamente legittimo?

Questa è la domanda angosciosa con cui Emone e, prima ancora, Antigone mettono in crisi Creonte. Vi sono leggi “naturali” superiori a quelle della città, che sono pur sempre forgiate dagli uomini e non dagli dei: in questo crede Antigone e a questo imperativo morale obbedisce, a costo della sua vita. Vi è uno spazio di riflessione anche di fronte a questa certezza assoluta di Antigone, oggi che il confine assoluto della vita si sposta continuamente in terreni dove l’uomo – con il dominio sulla tecnologia attraverso la scienza – può determinare o almeno influenzare queste leggi “naturali”. Ma sarebbe una forzatura aprire queste riflessioni qui, all’altezza del testo di Sofocle a cui Archivio Zeta si attiene.

Non dobbiamo neppure sottovalutare il fatto che Antigone è una donna e da questa donna giunge la sfida, sfrontata ed estrema, al potere. In una società che non contemplava neppure questa possibilità, tanto che nello scontro dialettico fra Creonte ed Emone su una cosa concordano i due e cioè che “a nessun costo bisogna lasciarsi vincere da una donna. E’ pur sempre preferibile soccombere a un uomo, se è necessario: almeno nessuno dirà che siamo più deboli di una donna”.

Sono piuttosto le domande sollevate da Emone che scalfiscono la marmorea certezza sul potere e le leggi di Creonte. Ed è, proprio alla Futa, uno dei due cardini del lavoro di Archivio Zeta. Di chi è veramente quel potere che Creonte esercita al servizio della legge? Se il fine è il bene della città e della comunità che la abita, allora il rischio maggiore che il potere può correre è quello di deviare da questo fine per condizionare la comunità e ridurre la libertà dei suoi abitanti che, infine, sono se non la sorgente, almeno il bacino entro cui deve defluire l’applicazione delle leggi. Ma oggi, come ieri, il potere ha sviluppato modi subdoli e raffinati per condizionare la libertà e non ha più la necessità di manifestarsi in camicia nera e passo dell’oca per imporsi. Siamo all’autoreferenzialità assoluta del potere, al solipsismo che interrompe ogni dialettica: “il tuo sguardo – dice Emone al padre – intimidisce il semplice cittadino, impedendogli di esprimere ciò che ti potrebbe dispiacere”.

Quando un regime politico concentra il potere, sono sempre di più l’autocensura dei cittadini, la tendenza omologatrice del pensiero critico, il trasformismo per godere anche marginalmente di alcune briciole del potere dispensate dalla sua tavola imbandita, il controllo (“lo sguardo”) sulla vita dei cittadini magari svolto in nome della loro sicurezza, che trasformano in assoluto un potere che nasce per servire il popolo.

Mentre, seppure mai citata, è la democrazia il regime che garantisce maggiormente contro il potere assoluto. Naturalmente laddove la democrazia mantiene la sua essenza di fondo, che non è solo un metodo per eleggere i propri rappresentanti e i delegati a prendere le decisioni, bensì la discussione e la dialettica per formare (e anche cambiare) una convinzione, cioè un potere. Emone lo dichiara, per il bene di Creonte (cioè per il regime che egli incarna e per la città): “No, non trincerarti nell’idea che solo ciò che dici tu, e nient’altro, sia giusto.

Quanti presumono di aver sempre ragione, o di possedere una lingua e un animo superiori, ebbene, una volta scrutati a fondo rivelano il loro vuoto interiore. Anzi fa onore a un uomo, per quanto saggio egli sia, continuare ad imparare senza chiudersi nell’ostinazione. … Coraggio, arrenditi, e concedi al tuo animo un qualche cambiamento”.

E’ questa l’essenza della salute dei regimi politici, la disposizione all’ascolto, al dialogo, al cambiamento. Fin quando la democrazia mantiene questa disposizione, essa rimane il regime strutturalmente più giusto; quando esso elegge rappresentanti che perdono questa disposizione nella convinzione inappellabile di conoscere da soli il bene della città ed esercitarlo senza alcuna forma di dialettica, allora la democrazia inizia a trasformarsi in un altro regime, degenera e rischia il crollo. Infatti, Emone lo dice più volte: “dico queste cose, Creonte, per il tuo bene”. Così come lo dirà, con più efficacia per via del vaticinio di morte, l’indovino Tiresia. “Cambia idea, fatti vincere dal dubbio, abbandona la cieca osservanza di leggi umane che ti porteranno a compiere la più grande delle ingiustizie”: questo l’appello straziante di Emone a Creonte. E’ un appello tragico perché inascoltato. Emone non sa l’argomento forte che conosce Tiresia, cioè la previsione del lutto che si abbatterà su Creonte-uomo che lo porterà alla rovina.

Ma Tiresia vede bene non solo il futuro, bensì il presente: “Per tuo volere la città è malata: tutti gli altari, tutti i nostri bracieri sono contaminati da brandelli di carne che uccelli e cani hanno strappato a quel misero caduto, al figlio di Edipo. Perciò gli dei non
accettano più da noi preghiere e sacrifici… Cedi pertanto di fronte a un morto, non voler colpire un cadavere: bella prodezza uccidere nuovamente un morto! Parlo per il tuo bene…”.

Ecco, qui, il secondo perno della riduzione teatrale della tragedia realizzata da Archivio Zeta: la nostra città è malata perché lasciamo insepolti, abbandonati al loro tragico destino migliaia di esseri umani nel mare che bagna la città. Gli dei non ascoltano le nostre preghiere perché esse sono ipocrite ed egoiste. I nostri sacrifici sono inutili perché chi ha il “potere di adottare qualsiasi misura”, colui a cui la città ha affidato il potere, lo sta usando per applicare leggi disumane che pure ritiene assolute. “Si chiudano i porti e si applichino le leggi: chi non ha diritto non entra; nessuna compassione, nessun “buonismo”; se non puoi entrare crepa pure in mare, non è compito mio; io mi occupo prima dei miei, dei cittadini ligi alle nostre leggi; coloro che le violano o si pongono all’esterno di esse, possono pure perdersi; non mi convincerete a cambiare idea perché io sono nel giusto assoluto!” Quando il potere pronuncia queste parole ha già imboccato il piano inclinato della sua (e nostra) rovina. Non c’è Tiresia che tenga e che gli domandi “C’è uomo che sappia, che intenda che saggezza è il bene supremo?”. Il potere reagisce rabbiosamente a questi presagi di sventura; accusa i Tiresia di nefandezze, di essere avidi di denaro e di ricercare vili guadagni. E’, fuor di metafora, la reazione di Salvini alle denunce umanitarie di Saviano.

La denuncia di Archivio Zeta al Passo della Futa è muta eppure urla il dolore e la follia di una società che ha perso saggezza e compassione, incapace di provare sentimenti di solidarietà e finanche pietà per i morti innocenti, accecata dalla legge dell’egoismo e della paura, e che affida tutto il potere a chi farà il lavoro sporco per loro.

La tragedia di Sofocle termina con il suicidio di Antigone la giusta e di Emone il compassionevole; ma noi sappiamo che ben presto arriverà anche la rovina di Creonte e di Euridice. Non è necessario essere Tiresia, per sapere in quale orrido di inumanità ci condurrà l’assolutismo egoista di Creonte. Il coro sofocleo sembra anticipare il naufragio nel quale ancora oggi siamo coinvolti: “…se da urto divino è scossa la casa, irrompe ogni disastro e incalzando dilaga: come quando il fiotto marino sospinto da furiose raffiche tracie, trascorre l’abisso subacqueo e dal fondo la sabbia scura risucchia e ne gemono sordi i promonitori battuti dalle onde e dai venti”.