Il Ciclope
di Euripide
Dopo Aristofane e Plauto affrontiamo l’opera più singolare del tragico greco. E’ la rilettura in chiave satiresca di uno dei miti più cari al Mediterraneo: Polifemo e Odisseo.
regia di Gianluca Guidotti
traduzioni Camillo Sbarbaro e Luigi Pirandello
maschere, ‘supermarionetta’ e oggetti Enrica Sangiovanni
luci Giovanna Piacquaddio
musica Claudio Monteverdi e Antonio Vivaldi
con Gianluca Gambino – Ulisse, Mariano Pirrello – Satiro, Enrica Sangiovanni – Sileno, Stefano Scherini – Ciclope
produzione Archivio Zeta 2002/2003
Il Ciclope di Euripide è l’unico dramma satiresco giunto fino a noi. Ad Atene, duemilacinquecento anni fa, si recitava un dramma satiresco dopo la trilogia tragica, a completamento della tetralogia che ogni autore-regista-attore presentava, dall’alba al tramonto, a tutti i cittadini. Dopo Aristofane e Plauto affrontiamo l’opera più singolare del tragico greco. E’ la rilettura in chiave satiresca di uno dei miti più cari al Mediterraneo: Polifemo e Odisseo. A differenza del racconto omerico, questo dramma satiresco è ambientato in Sicilia, alle pendici dell’Etna. Ci troviamo in un’isola vulcanica favolosa, incantata, dove vivono schiavi del ‘Ciclope mandriano’ Sileno e Satiro, antenati di tutte le creature dei boschi e archetipi per la commedia latina e la commedia dell’Arte; reclusi senza Bacco e in astinenza di vino; il Ciclope vive da pastore in una grotta, mangia carni e beve latte a sazietà; ma il terreno dell’azione è infido, aspro. L’isola/Ciclope, isola nello spazio e nel tempo, confina a nord con l’Odissea, a est con gl’inni bacchici, a ovest con l’Omeros di Dereck Walcott ed è soltanto a sud che riusciamo ad aprirci un varco, verso il mare nostro aperto. Ed è a largo di questo tracciato che Euripide, con grande maestria e con versi perfetti (nel caso nostro voltati in italiano e siciliano da Camillo Sbarbaro e da Luigi Pirandello), ha inscenato la storia dell’incontro-scontro di due civiltà: da un lato la curiosità, l’inganno, la tecnica, la ragione, l’irrequietezza, la sete, dall’altro l’isolamento, l’anarchia, la forza, la fatica, il nomadismo, la fame.
E sono germi di tragedia: quasi che il vecchio Euripide non riesca a scrollarsi di dosso parassiti, fermenti, muffe che abitano il proprio peso tragico. Non rimane che una bava di scrittura e deve venir voglia, a colui che crede ancora nella simpatia del Teatro, di tosarlo nuovamente questo vello e nuovamente batterlo e filarlo, al fine di restituire al pubblico il tessuto dalle cui trame ancora, e forse per puro caso, si riescono ad intravedere e immaginare con la fantasia mondi che sono la nostra terra, la nostra mente, il nostro codice.
Eppure! ‘semplicemente’ cerchiamo di riraccontare questa storia a grandi e piccini, a coloro che già la sanno ma che ne vogliono gustare un diverso tono, a coloro che la intuiscono per la prima volta. E’ la storia antica di un viaggio per mare e di un gigante, di un accecamento e di una cecità; è una leggenda di conquista e il mito di una perdita: di un altro disorientamento dell’Altro provocato da un disorientato che si fa chiamare Nessuno.