L’origine è la META

Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni | 03/09/2011 | L'Orizzonte

M.E.T.A.

L’origine è la meta.

Karl Kraus (citato da Walter Benjamin nella Tesi sul concetto di storia)

Da alcuni anni abbiamo incrociato una parte del nostro percorso artistico e intellettuale con la Scuola di Pace di Monte Sole. Sono approdati a Monte Sole alcuni nostri spettacoli, abbiamo ideato il Progetto Meta MemoryEducationTheatreAction che ha prodotto La Zona Grigia da Primo Levi.

Questa scuola lavora sui luoghi della Memoria del massacro di Monte Sole. Tutti conoscono questo episodio come strage di Marzabotto: la retorica delle istituzioni negli anni del dopo guerra ha deformato così irresponsabilmente la realtà storica di luoghi e persone, facendo credere, per semplificare e usare meglio questo episodio politicamente, che la strage sia avvenuta solo nel paese di Marzabotto. In realtà questa fu una operazione militare vasta e complessa che coinvolse una intera vallata dove vivevano in piccoli nuclei di case coloniche molte famiglie contadine. Fu quindi una violenza casa per casa, una violenza agli esseri e alle cose che fece tabula rasa di una comunità che abitava un territorio. Oggi questo territorio è Parco Storico e porta appunto il nome della sua vetta più alta: Monte Sole. Se si arriva a Monte Sole in un giorno qualsiasi, fuori dalle celebrazioni, si ha davanti il paesaggio dell’Appennino e una sensazione di vuoto, come di campagna abbandonata dall’uomo. Immagine quasi tranquillizzante, da gita domenicale in campagna. Solo se si ha tempo e curiosità di approfondire si capisce che questa pace non è vera pace: questa un tempo era una terra piena di vita! Si prova a fissare lo sguardo su queste linee di verde per cercare di accedere ad una visione più profonda del paesaggio. I cartelli indicano due o tre siti della strage (furono più di cento) e visitandoli ti sembra di essere in una area archeologica finta: muri rifatti, rovine ricostruite e fiumi di retorica istituzionale e religiosa dalle lapidi disposte un po’ ovunque.

Da questa falsificazione del paesaggio e da questo abbandono tranquillizzante è nato in noi il desiderio di provare ad abitare quei luoghi restituendogli la parola, quindi la vita. Un desiderio pretenzioso certo, ma molto affine a qualcosa che si può definire teatro, un nostro modo di fare teatro. Ricercare sui luoghi, in relazione allo spazio e alla natura, la responsabilità della parola pronunciata.

Così nell’estate 2011 insieme alla Scuola di Pace, che ha una sede/foresteria proprio nel parco in mezzo al verde, all’interno del più ampio progetto META, abbiamo organizzato un laboratorio di una settimana, aperto a tutti e condotto da noi per la parte teatrale e dagli educatori della Scuola per la parte educativa e storica. Si è costituito un gruppo variegato di persone che per sette giorni per quasi dieci ore al giorno ha partecipato alle attività proposte. Non è questa la sede per dare una descrizione dettagliata di tutto il laboratorio che è stato per tutti una esperienza di una densità impressionante. Ci limiteremo a descrivere quello che abbiamo tentato di fare noi. Può essere considerata una descrizione abbastanza chiara del nostro metodo di lavoro.

Come abbiamo lavorato: il primo giorno abbiamo chiesto ai partecipanti di selezionare e leggere a voce alta un breve brano dal libro che loro stessi avevano scelto e si erano portati a Monte Sole. A partire da questi testi casuali (da Albert Camus a Dino Buzzati, da Andrea Camilleri a Nuto Revelli, Mariangela Gualtieri, Dominique Lapierre, da Ray Bradbury a Edgar Lee Master…) pian piano abbiamo provato a dare una serie di indicazioni, sull’uso della voce e della

parola, sullo sguardo e sulla direzione. Si è formato en plein air un arcipelago di testi apparentemente senza nessi fra di loro ma che hanno permesso una prima fase di ascolto e di conoscenza degli altri e un primo grado di comunicazione verbale.

Nei giorni successivi, in sintonia con il lavoro educativo e di memoria, abbiamo abitato ogni giorno un luogo diverso dell’eccidio e in ciascun luogo abbiamo provato a lavorare teatralmente su un testo questa volta proposto da noi: il poema di Cesare Pavese LA TERRA E LA MORTE.

La fase iniziale del lavoro si è svolta a Colulla di sopra. Ferruccio, uno dei testimoni, ci ha accompagnato nella passeggiata fino a dove era la sua casa: ci ha aperto letteralmente un sentiero con il machete perché il bosco abbandonato lo aveva ricoperto e solo grazie alla sua conoscenza del territorio siamo riusciti a raggiungere le rovine della casa dove tutta la sua famiglia ha perso la vita. Abbiamo provato a far leggere il testo integrale ad alta voce: i partecipanti potevano prendere una posizione nello spazio e decidere come e quando intervenire e quale parte del poema leggere. Ferruccio, dopo averci raccontato la sua testimonianza e dopo aver mangiato con noi sulla paglia e sull’erba, ascoltava Pavese attento, in silenzio.

Non sono state mai assegnate parti ma si è letto a turno, sentendo il momento giusto per intervenire, ascoltando gli altri e vedendo cosa stavano facendo. Il primo concetto che abbiamo cercato di far comprendere è che il testo è uno spartito vivo e si deve rispettare e amare il verso, nel tentativo di far esplodere, anche solo per un istante, le parole riemerse da quella poesia scritta nel 1945 a pochi mesi dai fatti di Monte Sole e che là in quel podere abbandonato, davanti al dolore e alla dignità di quel vecchio signore, stavano lentamente riprendendo significato al di là della pagina scritta.

Come abbiamo usato lo spartito: come in musica. Nel secondo luogo che abbiamo abitato teatralmente, Cerpiano, le parole di Pavese hanno iniziato ad avere peso e valore, le parti del discorso hanno formato dei suoni e il discorso un andamento. Si parte sempre dall’ABC: la punteggiatura e i silenzi. Abbiamo iniziato a segnare il testo con la matita e a formare uno spartito di segni comuni: pause che sono respiri, respiri di due o di quattro tempi; legature su uno stesso fiato. Nello stesso tempo abbiamo iniziato a richiedere maggiore cura e attenzione nell’uso della voce e dello spazio. Da dove nasce il suono? Come produrre un suono e da quale distanza? Nel corso dei tentativi il laboratorio ha maturato una coscienza, o meglio una responsabilità, nei confronti del testo e della sua fondamentale importanza. Abbiamo iniziato a non sprecare più le parole: si devono pesare, re-citare, si fanno rivivere secondo un canone nuovo di relazioni. In questo corpo a corpo con la parola ad alta voce sta la ricerca della bellezza e la scoperta della contemporaneità. L’ascolto e la ripetizione, la ricerca e la dedizione sono stati d’aiuto per trovare l’equilibrio e l’armonia.

Dopo questa prima fase di scoperta, di decodificazione e di condivisione (anche attraverso conflitti e opposizioni) di un metodo di lavoro comune è iniziata la fase del gioco: nel terzo luogo che abbiamo abitato, San Giovanni di sotto, ha avuto inizio una fase più teatrale, in cui si è messo in movimento anche il corpo, attraverso i gesti e la posizione nello spazio. Tutto questo sempre in riferimento costante allo spartito: niente è lasciato al caso o al caos, ma si fanno tentativi sempre attraverso una improvvisazione guidata. Si è meditato sull’importanza del gesto e del corpo perché anche il

corpo e il gesto sono la nostra lingua comune e hanno peso come le parole. Si è lavorato sugli spazi, all’aperto, mettendo in connessione la natura (il vento, il sole, il verde degli alberi, la terra rossa e la terra nera, il piccolo lago, le campane in lontananza dei frati dossettiani, i versi degli uccelli, un aereo che passa…), con i luoghi di memoria, con l’azione teatrale. Nell’arco del percorso l’obiettivo è stato quello di lavorare con rigore e massima concentrazione sugli elementi di base del (nostro) teatro e di condurre i partecipanti verso una consapevolezza etica nei confronti di ciò che dicono o fanno.

L’ultima prova del testo è avvenuta a San Martino: in silenzio, sapendo che sarebbe stata l’ultima prova, ciascuno si è messo in ascolto dell’altro, ha cercato di percepire i movimenti dell’altro, ha cercato di trovare uno spazio nelle parole di Cesare Pavese e di ripeterle a contatto con la natura e la memoria, circa mezz’ora di sospensione sulle Parole, di responsabilità e di azione: la sensazione finale che si è percepita è stata molto forte. Ci siamo trovati immersi in un rito, rito culturale, un teatro fatto da cittadini che si sono posti dei problemi, che hanno fatto dei tentativi, un atto nello stesso tempo umano e politico (nell’accezione greca del termine). Un atto in cui un gruppo di persone faticosamente ha cercato di dare senso a parole e cose. Un lavoro che, concretamente, nei fatti, ha tentato di essere ipotesi di risposta, di presa di posizione nel dibattito ARTE/MEMORIA.

Un lavoro che per tutti ha avuto inizio e rimane aperto: si è lasciato a ciascuno la libertà di decidere se ripetere l’esperimento teatrale de La Terra e la Morte nei giorni dell’anniversario di Monte Sole a Ottobre 2011 davanti ad un pubblico di altri cittadini…e così è avvenuto.

A ottobre ci siamo rivisti e abbiamo riletto tutto il poema dopo un mese che non ci vedevamo, non ci sono state prove nel frattempo. Un piccolo gruppo di spettatori ascoltava curioso e stupito. Forse siamo sembrati dei matti ma per noi questo esperimento ha un significato immenso: ha dimostrato quanto sia importante concentrarsi su un testo per un tempo lungo e leggerlo e rileggerlo infinite volte e poi farlo decantare per poter iniziare a dire di averlo letto, se non capito, nelle sue coordinate musicali, ritmiche e compositive, quanto sia importante conoscere lo spazio dove avviene questa lettura a voce alta, quanto sia importante mettere in comune questi tentativi di lettura con gli altri.

Per noi l’incontro con la parola, con la letteratura non può prescindere da questo artigianato. La parola è una materia che sottostà a delle leggi e la letteratura è un codice. Per togliere alla meravigliosa avventura della lettura e della scrittura il pericolo costante dell’irresponsabilità e dell’assuefazione, insomma l’uso e l’abuso col mondo, la nostra bottega di teatranti ostinati, tenta queste strade. Cerchiamo la meraviglia e ogni volta che rileggiamo cerchiamo nuovo significato. È un servizio fatto alla sensibilità nostra ma anche a quella di chi, scrivendo, in un tempo precedente, ha pensato prima nell’interno, nel profondo della sua mente, un pensieroparolanodoimmagine e lo ha posto alla verifica della ragione e infine ha preso il coraggio a quattro mani e ha tracciato, inciso, battuto, a seconda dei supporti del proprio tempo, la traccia e i segni del pensiero. In questo tentativo di ritornare alle sorgenti del significato risiede l’unica ragione per cui continuiamo a fare teatro.

Gianluca Guidotti / Enrica Sangiovanni / Archivio Zeta