L’epidemia delle Baccanti

Paolo Pecere | 21/12/2023 | Il Tascabile

Un lavoro più rigoroso sul testo originale di Euripide è alla base delle Baccanti di Archiviozeta. Lo scenario è la Villa Aldini di Bologna. Nei pressi di un centro per richiedenti asilo si manifesta il dio che, come racconta il coro euripideo, viene dall’Asia. Questo nesso produce subito una fusione: la prima apparizione di Dioniso è una figura a dieci braccia e cinque teste, maschili e femminili. Balena per un attimo la remota parentela tra Dioniso e il dio che danza indiano, Shiva. Il riferimento puntuale si evince da una rilevante modifica del testo: “Io vengo da Lahore”, dice il dio, nominando la città oggi pakistana dove si fermò l’impresa di conquista di Alessandro Magno, che andava sulle tracce del dio straniero e credette di trovarne gli adoratori in India. Il mito dell’origine indiana di Dioniso era già in Euripide, dove il coro celebra le “Baccanti dell’Asia”. L’incontro tra Europa e India – dove “India” è sinonimo di un molteplice altrove geografico-culturale, come mostra la storia degli ultimi secoli – in questo nuovo prologo recitato dal dio passa per l’Anatolia, la Persia, per città dove “barbari e greci convivono”.

Ammoniti su questa apertura degli spazi, gli spettatori si spostano di fronte alla facciata neoclassica della villa. Cadmo e Tiresia, divenuti baccanti, danzano ai margini della struttura, sul prato. Un Penteo-donna si affaccia e li contempla sprezzante. “Nella follia e nel furore bacchico c’è grande forza profetica”, la avverte Cadmo. “Quando il dio entra nel corpo fa predire il futuro al posseduto”. Ecco un’altra delle forme di mania riconosciute dai greci, di cui parlava Platone: poetica, erotica, divinatoria e rituale. Ed ecco il riferimento alla possessione, in cui i moderni hanno riconosciuto in altri tempi e paesi la realizzazione di quei quattro entusiasmi.

Penteo scende dal tempio per fronteggiare lo straniero. Dioniso è incarnato da due attori, uomo e donna, che girano intorno al re come a incantarlo. Questa molteplicità esprime un tratto fondamentale della figura di Dioniso, che riguarda proprio la possessione. La rappresentazione del dio come individuo antropomorfo non deve trarre in inganno, poiché è soltanto uno dei modi umani di vederlo. Penteo, approssimandosi alla morte, lo vedrà come toro. Ma Dioniso è anche vino, pulsazione del cuore, scatto muscolare, è insomma un’energia multiforme che si manifesta nel corpo e precede la coscienza di sé. Dioniso è il dio che viene da fuori, entra in un individuo come un elemento estraneo, raggira l’io; eppure, si deve dire, è il mio corpo quello che agisce (Agaue dovrà accettare di avere ucciso il figlio, credendolo preda).

 

 

Baccanti di Archiviozeta. Photography: Franco Guardascione

Questa compresenza di identità e alterità è essenziale all’esperienza indotta da Dioniso, e caratterizza fin dall’inizio il dio in quanto greco che è creduto barbaro, umano che è anche animale. Nietzsche, dopo aver celebrato il “dilagare al di fuori dell’io” del dionisiaco, si convinse che l’Io è “una pluralità di forze di tipo personale, delle quali ora l’una ora l’altra vengono alla ribalta, come ego”. Come il corpo umano è fatto di tanti individui, le cellule, così la psiche è molteplice, la sua unità è solo un’istituzione: è “un’organizzazione sociale di molte anime”. Alla luce di questi sviluppi, dare un corpo a Dioniso appare niente più che un espediente riduttivo, una necessaria strutturazione di un fenomeno che sfugge al principio di individuazione.

Il finale della tragedia, dopo la liberazione di Dioniso, si svolge nella vegetazione della Villa. Gli spettatori sono portati lontani dalla scena, si avvicinano al luogo della morte di Penteo. Le baccanti si sono dileguate, il dio osserva la scena da lontano. Restano Agaue e Tiresia, sconvolti dall’epifania, mentre lo sguardo ordinario si ricompone.