La ricchezza, la povertà: è una commedia? è tragedia? Uno spettacolo di Archivio Zeta

Cosa c’entra Marx (proprio lui, Karl, col barbone, quello dello spettro che si aggira per l’Europa) con Aristofane, con la ricchezza e la povertà, con i telai per la tessitura e con i cinesi di Prato? La risposta sta nel nuovo spettacolo di Archivio Zeta, Plutocrazia, da Pluto, l’ultima commedia scritta da Aristofane nel 388 a.C. L’abbiamo vista in trasferta nell’aula magna dell’Alma Mater per il ciclo «La permanenza del classico». Lo spettacolo, produzione del Metastasio, teatro stabile della Toscana, è stato in scena al teatro Magnolfi di Prato per tre settimane fino al 21 maggio.

Il sottotitolo, Un contrasto economico, un collasso dialettico, fa subito presagire che non si tratterà solo del testo del più caustico commediografo ateniese, nella nuova traduzione, insieme agile e letteraria, di Federico Condello. La storia del contadino Cremilo, che vuole rimediare alle ingiustizie del dio della ricchezza, Pluto, si amplia a un saggio sulla distribuzione diseguale della ricchezza, con un discorso sull’arricchimento, il valore di scambio, il benessere, il consumismo. Tutto è partito da una riflessione sulla situazione di quella città particolare che è Prato, arricchitasi enormemente nei secoli grazie ai telai, con trasformazioni dirompenti negli anni del boom economico, che hanno mutato una popolazione contadina e artigiana in piccoli proprietari. Poi è arrivata l’onda cinese, studiata in un recente saggio, Vendere e comprare – processi di mobilità sociale dei cinesi a Prato a cura di Fabio Berti, Sara Iacopini, Valentina Pedone, Andrea Valzania (Pacini editore / ricerca Sociophaenomena), un altro tsunami. Quello studio su una parte di popolazione legata al lavoro quasi da catene ha incontrato un’idea che Archivio Zeta persegue da tempo: quella di un teatro di parola che, secondo la concezione di Pasolini, entri nei gangli dolenti del nostro sistema politico ed economico per sviluppare un discorso di cittadinanza democratica.

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Sostenuta da una partitura principalmente rumoristica di Patrizio Barontini, con sussurri e fragori di macchine per cucire e di telai, la storia parte seguendo la favola di Aristofane e si inerpica per territori che vanno verso l’economia, la riflessione filosofica, politica e umanistica, Kasrl Marx e uno scritto di Goffredo Parise, con ulteriori suggestioni da Noam Chomsky e da Franco Belli, vecchio compagno di strada della compagnia scomparso qualche anno fa, già preside della facoltà di Economia di Siena.

L’anziano Cremilo vuole mettere le mani sul dio della ricchezza per togliergli la benda sugli occhi, impostagli da Zeus per invidia degli uomini, un accecamento che gli impedisce di distribuire in modo equanime la ricchezza. Ma sul più bello, mentre il folle progetto sembra riuscire, e la cieca nera intabarrata dorata ricchezza cade nelle mani dello spiritato, imparruccato, imbiaccato contadino, spunta fuori un’antagonista imbarazzante, Penia, Povertà, che smonta l’idea che un mondo di soli ricchi, tutti ricchi, sarebbe migliore. Siamo nella classica struttura agonistica aristofanea, anche se la commedia, l’ultima scritta da questo autore che aveva messo alla berlina il potere democratico ateniese e la guerra, la corruzione e i sicofanti, Socrate e Euripide, presenta alcune anomalie e respira un’aria meno corrosiva di quelle rappresentate prima della sconfitta di Atene nella Guerra del Peloponneso.

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Nell’allestimento di Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti, anche attori di originale caratura insieme con un portentoso Ciro Masella in varie parti (il servo, Karl Marx e altre, con voci e “maschere” fisiche sempre differenti), siamo in un luogo oscuro, che sarà presto riempito di macchine per cucire e di pezze di stoffe, di numeri scritti a gesso sulla ingiusta distribuzione delle ricchezze, concentrata in gran parte in poche mani. Ma soprattutto con apparizioni di personaggi e testi fuori contesto, subito dopo la cattura di Pluto. Dal fondo del teatrino arriva Masella con barbone e capelli alla Marx, come lo spettro del comunismo o delle riflessioni dei suoi Manoscritti economico-filosofici, a decretare: «Non c’è più onestà in nessuno: sono tutti schiavi del guadagno È venuto, infatti, il tempo […] in cui quelle stesse cose che fino a ora erano state messe in comune ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite, ma mai acquistate – virtù, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. – tutto è diventato commercio». Tutto è valore di scambio, anche l’uomo. Arriva a chiedere di spartire i beni tra tutti, secondo le necessità e i bisogni di ognuno.

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Uscirà dal sottopalco Povertà a ricordare a Cremilo che se tutti saranno ricchi nessuno vorrà più lavorare e toccherà a lui dare di zappa. Sostiene la tesi che il bisogno aguzza la voglia di migliorare. Contrasterà l’idea che solo la ricchezza e il consumo siano benessere con le parole di un bellissimo articolo scritto da Goffredo Parise per il “Corriere della Sera” nel 1974, Il rimedio è la povertà, un poetico schiaffo alla cultura del consumo indiscriminato quale si era sviluppata negli anni del boom economico. Poi arriverà in scena un mago, con costume balletto e musiche orientaleggianti, a raccontare, per lampi, il boom cinese. Tutto finisce con un coro, in video, di cittadini, che assumono su di sé le parole di alcuni cinesi di Prato raccolte nella ricerca di Berti e compagni da cui tutto è partito. Storie di sfruttamento bestiale, di non comunicazione con gli italiani, di emarginazione civile e umana. «Un coro di pratesi che riportano le parole dei cinesi, come quello dei Persiani di Eschilo, fatto di greci che interpretavano i nemici, gli sconfitti, i persiani», ci ha detto Guidotti in un’intervista. Qui, negli inferni di una produzione che non guarda in faccia la vita, che stravolge un territorio, chissà chi sono gli sconfitti e chi i nemici.

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Lo spettacolo si apre con le note della canzone Ma cos’è questa crisi? e si chiude con un appello a uscirne insieme, dalla crisi. È un lavoro generoso, pieno di spunti, tanti per un’ora e venti di spettacolo, con troppi fili che si aprono e vengono appena accennati. Tutti molto densi, troppo, così da risultare spesso enunciati e non sviluppati. La drammaturgia non sceglie nettamente una strada. Non percorre fino in fondo quella del comico, affidata perlopiù a deformazioni vocali e a una resa caricata dei personaggi, senza momenti che scatenino davvero la risata. Si bilancia verso una commedia a tinte cupe, rivolta verso la tragedia, cealla fine non tocca né gli abissi del tragico né la follia disincantata e curativa del comico. Accumula troppi fili politici e di pensiero senza una linea emergente, evidente, svariando tra la cultura del boom, la critica politico-economica, la questione cinese, l’esaltazione di una misura anticonsumistica, lasciando sullo sfondo proprio l’attualità più bruciante della crisi, che molti di quegli elementi in campo ha travolto e trasformato. Percorre la strada dello straniamento, del teatro di idee, ma la fa diventare principalmente parenetica, predicatoria, prevedibile, non sempre riuscendo a riportarla a materia teatrale, se non con colpi di scena alquanto esteriori.

Eppure la materia c’è, il tema, l’intuizione, la sfida con l’ostica materia dell’economia e dell’osservazione non banale del presente. Tutto, però, è da precisare, forse semplicemente da semplificare, scartando, concentrando, evitando strade che nel breve tempo di uno spettacolo teatrale non possono che apparire superficiali, affastellate. Scegliendo più decisamente l’estetica rispetto all’etica e alla politica: per dare maggiore forza a queste ultime.

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Fotografie di Franco Guardascione