ENRICA SANGIOVANNI E GIANLUCA GUIDOTTI SI METTONO ALLA PROVA CON UN GRANDE CLASSICO ALLESTITO AL CIMITERO MILITARE GERMANICO DELL’APPENNINO TOSCO-EMILIANO

Avremmo voluto andare in vacanza a Davos, in Svizzera, nel Canton Grigioni, ma abbiamo desistito: la nostra misera pensione di insegnante e appassionato teatrale sarebbe stata delapidata in pochissimi giorni fra treni ed albergo.
Ma ci siamo potuti essere lo stesso a Davos, anche se idealmente, e tanti anni addietro, trasportati per mezzo del teatro, sulle orme del giovane ingegnere navale di Amburgo Hans Castorp, il protagonista del romanzo “La montagna incantata” di Thomas Mann del 1924, ma iniziato prima che la Grande Guerra sconvolgesse tutti gli orizzonti prestabiliti.

Lo abbiamo fatto attraverso il nuovo progetto di Archivio Zeta che, dopo l’interruzione del 2020 causata dalla pandemia, è tornato ad ambientare i suoi spettacoli al cimitero militare germanico del Passo della Futa, dove ci siamo già recati diverse volte per vivere sempre esperienze di forte immaginazione. Un luogo misterioso e sacro, perché racchiude più di trentamila soldati tedeschi, coinvolti loro malgrado nella seconda guerra mondiale, sepolti sotto semplicissime pietre tombali, nemici del nostro Paese e per ciò ancora più rappresentativo e colmo di suggestioni e rimandi.

Coraggiosissima la scelta della compagnia bolognese, che ha inteso mettere in scena non un’icona teatrale, entrata nell’immaginario di tutti, bensì un romanzo “monumento” di corposa e non facile lettura. Scelta quanto mai azzeccata, perché connettendosi con questo assoluto e amato capolavoro, lo spettacolo ci immette in argomenti assolutamente attuali come la malattia, che non è ben inteso solo quella del corpo, ma dell’anima, il tempo sospeso, la crisi di una società incapace di guardarsi dentro, la guerra, che alla fine del romanzo giungerà inesorabile.

E azzeccata anche per il luogo scelto, una montagna vera, lontana “dal mondo di laggiù”, luogo immaginifico come quello di Mann, che rimane come monito della stoltezza umana, ma anche colmo di pietà e di paesaggi davvero incantevoli e incantati.
È qui, al Passo della Futa, che Archivio Zeta ambienta la prima parte del romanzo di Mann, immaginandolo come il Sanatorio Berghof di Davosplatz, dove il protagonista Hans Castorp si reca a visitare il cugino Joachim, militare di carriera, internato nel sanatorio per curarsi dalla tubercolosi. Hans ha intenzione di fermarsi per sole tre settimane ma il soggiorno si dilaterà a dismisura per l’insorgere di una febbre che parrebbe consumare anche lui. Nel vero e proprio percorso di formazione, che in qualche modo anche noi esploriamo con Hans, e che si snoda in diverse tappe nel sacrario sino a giungere alla cripta, prima del bellissimo finale, faremo conoscenza di molti anime che abitano con il cugino il sanatorio.

La montagna incantata di Archivio Zeta (foto di scena Franco Guardascione)
La montagna incantata di Archivio Zeta (foto di scena Franco Guardascione)

Fra tutte, come nel libro di Mann, risaltano in questa prima parte la seducente Madame Clowdia Chauchat, moglie di un funzionario russo, di cui presto Castorp si infatua, e l’umanista, letterato ed enciclopedista, Lodovico Settembrini, innamorato della poesia e in special modo del Carducci, un po’ invasato nella sua saccenza, che vorrebbe distruggere un mondo che non gli piace e che diverrà una specie di mentore per Hans.
I malati vivono le loro giornate sdraiati sui rispettivi bianchi lettini, tra dottori un poco stregoni che sperimentano nuove teorie, psicanalisti improvvisati, infermiere, raccolti tutti insieme poi nella cripta del cimitero che, con bella invenzione, diventa una sorta di camera oscura, in cui ci appaiono le radiografie dei malati.

In questo contesto, tra discussioni filosofiche con il cugino e Settembrini, tentativi di approccio con Clowdia, paure e speranze, Castorp passa le sue giornate, in cui il tempo sembra fermarsi.
Il finale dello spettacolo è ambientato invece al calar del sole alla sommità del Memoriale. Qui, nel bel mezzo del Carnevale, tra figure enigmatiche che rimandano a Depero, Hans dichiara il suo amore per Clowdia, che irraggiungibile sta per uscire dalla Montagna incantata per ritornare al mondo di laggiù, e forse comprende come l’amore sia intimamente collegato alla malattia che man mano lo sta invadendo.

Il Sanatorio Berghof di Davosplatz è reso dalla drammaturgia e dalla regia di Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti che, in modo convincente, diventano Madame Chauchat e Settembrini: un luogo di sogno in cui Hans Castorp e il cugino si muovono come in un mondo grottesco, con la presenza costante del violoncello di Francesco Canfailla, accompagnato dagli interventi musicali composti da Patrizio Barontini.
Un luogo dai gesti e dai riti ripetitivi, rappresentativo di un mondo in profonda crisi, assolutamente bisognoso di una palingenesi che di lì a poco lo avrebbe completamente ribaltato.

Pouria Jashn Tirgan, attore bolognese di origine iraniana, è il cugino di Castorp; Giacomo Tamburini è il nostro protagonista, mentre Diana Dardi interpreta la Signorina Engelhart e la Superiora Von Mylendonk, Andrea Maffetti e Giuseppe Losacco sono la coppia di dottori Behrens e Krokowski.

Archivio Zeta riesce nell’impresa, che pareva impossibile, di restituirci uno dei romanzi cardine della nostra civiltà europea, riconsegnandocene il senso più profondo. Un senso che nasce da parole di sapiente sostanza, che sanno riverberarsi anche nel mondo di laggiù come monito prezioso attraverso cui comprendere come è necessario non commettere gli stessi errori, affinché la nostra civiltà possa continuare a perpetuarsi più forte e incisiva.
Un messaggio che vuole essere di lancio per la seconda parte del progetto, che vedremo in futuro.
To be continued…