RENZO FRANCABANDERA | Perché dovrebbe essere interessante per un individuo di una società occidentale, oggi, la rappresentazione di un testo drammatico scritto duemila e quattrocento anni fa, e che racconta della nascita di un dio appartenente a una mitologia politeista, i cui culti si sono estinti grossomodo mille e cinquecento anni fa al più tardi? E soprattutto, perché ne parliamo qui?
Ne parliamo per via di un allestimento di Le Baccanti di Euripide proposto da Archivio Zeta nell’ambito del programma 2023 di Bologna estate. In realtà, di estate se ne è vista ben poca, purtroppo, e così la compagnia ha subito le traversie che hanno accomunato moltissimi in questa regione fra metà maggio inizio giugno, quando era previsto un intero mese di repliche, oltre metà delle quali cancellate per il maltempo e l’inagibilità della zona collinare a ridosso di Bologna, che comprende anche Villa Aldini, una storica dimora neoclassica, costruita su un sito sacro ben più antico, e all’interno del cui spazio viene realizzato lo spettacolo.
Senza dubbio, Archivio Zeta ha subito le traversie legate ai tragici frangenti climatici che hanno coinvolto tutta l’Emilia-Romagna ma la compagnia da inizio Giugno ha ripreso con lo spettacolo e con Inosservanza, rassegna di eventi, spettacoli e laboratori ospitati a Villa Aldini, con eroica tenacia.
A fine luglio-inizio agosto arriverà, invece, la seconda parte de La montagna incantata al Passo della Futa nel Cimitero germanico, luogo ormai simbolo della pratica artistica di Archivio Zeta nell’ultimo decennio.

Il duo registico composto da Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti ha sviluppato una propria cifra poetica fatta di attraversamenti di testi classici, portati all’attenzione del pubblico dentro allestimenti architettonico spaziali, ambientati con accuratezza installativa all’interno di contesti di particolare pregio paesaggistico, luoghi da cui di solito lo spettatore può guardare non solo l’atto artistico, ma anche il panorama antropizzato, perdendo lo sguardo verso orizzonti lontani che fanno da contrappunto concettuale alle azioni teatrali.

foto di scena Franco Guardascione

Come ormai consolidato dalla ultra decennale pratica di questa compagnia di ricerca, lo spettacolo ha natura itinerante, con un numero di spettatori piuttosto ampio, che a volte assume anche un ruolo silenzioso di coro, di interlocutore silente. Di popolo.
Negli ultimi vent’anni, dopo aver attraversato Eschilo (I Persiani, 2003 – Sette contro Tebe, 2005 – Prometeo incatenato, 2008 – Orestea, 2010/2013) e Sofocle (Antigone, 2006, 2018, 2020 – Edipo re, 2011, 2015, 2021) in spazi fuori dall’ordinario come il Cimitero militare germanico del passo della Futa (FI), il Sasso di San Zanobi (FI), il Sacrario di Sant’Anna di Stazzema (LU), il Parco storico di Monte Sole – Marzabotto (BO), il Teatro di Segesta (TP), il Teatro romano di Fiesole (FI), si è arrivati per la prima volta ad affrontare Euripide con Baccanti.

Eccoci dunque incamminati, insieme a diverse decine di altri spettatori, in una affollata replica di metà giugno, dentro un percorso che si muove nel perimetro della villa che cinge la sommità del colle che domina la città di Bologna. Il percorso si ferma in alcuni emblematici luoghi in cui prende vita la rappresentazione.
In questo caso gli ambienti sono tre: l’antica chiesetta medievale a pianta circolare, inglobata dall’architettura della struttura neoclassica di forma templare, il prato antistante il frontone della villa, che ricorda gli antichi templi greci con rialzo, colonne e timpano, e, infine, un piccolo spazio in una parte più bassa della collina, a cui si può accedere sia attraverso un sentiero sia, come avviene nel caso di questa rappresentazione, passando attraverso una piccola breccia dentro la siepe che cinge il piazzale antistante l’ingresso della villa.

Ma che divinità era Dioniso e perché il testo de le Baccanti è importante?
Dioniso (o Bacco, come chiamato in età romana), dio del vino, del teatro e del piacere, era nato secondo la leggenda dall’unione tra Zeus e Semele, una donna mortale. Lo spunto della tragedia nasce dall’invidia delle sorelle della donna e del nipote Penteo (re di Tebe), che spargono la voce che Dioniso, in realtà, non sia nato da Zeus, ma da una relazione tra Semele e un mortale, una “scappatella” insomma, da cui non può che nascere un comune mortale.
Nel prologo della tragedia si narra della sua nascita, e di come abbia indotto un germe di follia in tutte le donne tebane, fuggite sul monte Citerone a celebrare riti in suo onore (le Baccanti, appunto).
Ma Penteo rifiuta di riconoscere il dio e il suo culto, nonostante Cadmo (suo nonno) e l’indovino Tiresia tentino di dissuaderlo e fa arrestare lo stesso Dioniso, venuto nella comunità con sembiante umano; il dio scatena un terremoto che gli permette di liberarsi immediatamente e convince Penteo a travestirsi da donna e andare sul Citerone, dove troverà la morte per mano delle baccanti, compresa sua madre Agave, che sarà condannata all’esilio con Cadmo.

A interpretare questa tessitura fattuale, contaminata e filtrata anche da letture e contributi testuali tratti anche da Ovidio, Roberto Calasso, Giorgio Ieranò, Paolo Pecere, ci sono Diana Dardi (Penteo, Agave), Gianluca Guidotti (Cadmo), Pouria Enrica Sangiovanni e Jashn Tirgan (entrambi nel ruolo di Dioniso), Giuseppe Losacco (Coro, Guardia, Messaggero), Andrea Maffetti (Coro, Tiresia, Messaggero) e Giacomo Tamburini (Coro, Messaggero, duduk).

La lettura che ne propone Archivio Zeta si apre, fra musiche, costumi, ambiguità identitarie e di genere, anche alle suggestioni, ampiamente attestate in letteratura, e riguardanti la questione della derivazione del culto di Dioniso da quello ben più antico di Shiva. Lo Shivaismo è una religione che trae ispirazione dalla natura, nata nella preistoria umana, e che secondo diversi studiosi può a buona ragione considerarsi «una delle fonti principali delle religioni successive» (Alain Daniélou).

La sua forma occidentale, unisce in un’ ideale filo, l’antico Egitto con il culto di Osiride,  Shiva e Dioniso in una continuità di forme e riti che non può essere casuale.

Lo sviluppo del culto delle regole, della morale, della ragione e dei modelli sociali di realtà costruiti dalla razionalità dell’identità stanziale del genere umano, ha progressivamente portato alla messa al bando dello Shivaismo, sopravvissuto solo con la segretezza dei propri iniziati, ma quasi tutti i culti esoterici hanno carattere shivaita o dionisiaco (sempre Daniélou).

Il motivo per cui la compagnia ha scelto questo testo, riguarda non solo il rapporto uomo natura, quanto mai attuale, e le questioni antropologiche sottostanti la mitopoiesi sincretica, ma anche la dicotomia potere autorità e il dilemma fra razionalità e iniziazione dionisiaca.

Avere potere implica necessariamente avere l’autorità per imporre qualcosa il popolo o di cui non avverte l’esigenza? O come avviene ad esempio nel caso della drammaturgia euripidea il popolo avverte un’esigenza che il governante non avverte?
Il dilemma è molto ampio, anche perché la politica negli ultimi decenni, complice anche l’imbrutimento della comunicazione social, ha perso la sua capacità programmatoria e spesso è diventata finanche troppo schiava della volontà episodica di questo o quel rigurgito di pancia della popolazione votante. La forma estrema del capitalismo, quello arrivato alla deriva digitale, ha ormai reso totalmente inefficaci i progetti di medio termine, e svuotato la politica di autorità e autorevolezza, facendone semplicemente un riverbero a livello internazionale di lobby sospinte da logiche di profittazione.

foto di scena Franco Guardascione

Anche ove questa cosa stranamente si dia, non è detto che un politico autorevole abbia poi la possibilità di portare a termine le sue intenzioni, proprio perché le società si muovono mosse da impulsi improvvisi e spesso imponderabili.
Successe anche in occasione dello tsunami che travolse l’area prossima alla centrale nucleare di Fukushima in Giappone.
Un borgo miracolosamente scampò alla tragica onda oceanica sollevata dal maremoto, perché un sindaco di quella municipalità, testardamente, imponendosi al volere di buona parte della sua comunità, spese un ingente somma di denaro pubblico per costruire un alto muraglione che difendeva il paese dal mare, fra proteste e conflitti. Morì nel vituperio generale, salvo poi essere omaggiato post mortem dai cittadini salvatisi dallo tsunami, grazie a quella scelta impopolare.
Insomma, le letture del testo possono andare in entrambe le direzioni: può esserci il caso del governante ottuso che osteggia un’istanza ormai ampiamente sentita dai suoi concittadini, frenando il cambiamento; ma anche quella del governante lungimirante che soccombe allo stordimento dionisiaco delle masse.

Tornando alla creazione di Archivio Zeta, questa profondità doppia appare preservata, perché non vengono espressi nell’allestimento giudizi su questa dicotomia, lasciando allo spettatore di sviluppare il tema.
Si fa strada, invece, specie nella parte iniziale, il riflesso della ricerca antropologica sottostante l’allestimento e che vede la collaborazione di Giuditta de Concini, maestra di danza indiana Bharatanatyam e la partitura musicale pensata con Patrizio Barontini, storico collaboratore della compagnia nella composizione sonora, quasi sempre eseguita dal vivo.

Nel primo ambiente la suggestione poetica crea un rimando con il grande mito della nascita degli dei, qualcosa che accomuna tutte le grandi culture e le religioni politeistiche nella commissione uomo natura. La regia sceglie, quindi, di mescolare al mito greco della nascita di Dioniso, raccontato all’interno della chiesetta, una serie di rimandi formali alla cultura indiana, che traspaiono sia nella scelta dei costumi (belle realizzazioni di Les libellules) che nella accurata partitura vocale e musicale che completa la parola. Il Dio è un’entità che accoglie in sé il maschile e il femminile, viene interpretato da un uomo e da una donna.

La forma della rappresentazione ha subito a che fare con il rito e il mito. La pianta circolare della chiesa crea un ambiente intenso e raccolto, che favorisce la narrazione dell’antefatto mitologico antecedente a quella che sarà la parte tragica vera e propria. Qui nasce il dio. Qui nasce la tragedia.

Uscito da questo piccolo ambiente, il pubblico si sposta nello spazio successivo, quello davanti all’ingresso della villa, nel grande prato e si dispone su due ordini di sedie parallele che si fronteggiano a delimitare un ampio spazio rettangolare che sarà occupato dall’azione scenica insieme alle grandi scalinate e alla balconata nella parte alta della facciata neoclassica, verrebbe da dire del tempio. Da questo sito elevato, infatti, apparirà il governante, per comunicare al popolo che lo ascolta in basso le sue determinazioni di vietare il culto del Dio. Inutili gli ammonimenti, arrivati della sapienza veggente, e l’intervento del dio stesso con le sue manifestazioni sismico magiche per rompere la gabbia. Il potente sarà incapace di leggere questi segni di portata inesorabile e creerà i presupposti drammaturgici per il tragico finale in cui soccomberà alla vendetta divina, cosa che avrà luogo nella terza parte dello spettacolo che si svolgerà in un altro ambiente della villa, più in basso.

La regia sceglie un approccio atipico rispetto alla cifra espressiva di Archivio Zeta, introducendo un’interessante e opportuna variatio di sapore shakespeariano nell’ambiente drammatico, fatta di un’ironia che si fa gestuale e musicale insieme, forma di irrisione del potere ma anche intreccio fra densità e leggerezza, la cui portata appare per certi versi nuova rispetto alle proposte sceniche di Guidotti e Sangiovanni degli ultimi anni. E pur nel rigore formale che sempre contraddistingue l’allestimento, questo spazio per l’ironia assume una caratteristica pregevole, verrebbe da dire chiaroscurale, per la capacità che ha di fare da preludio al finale drammatico, esacerbando il contrasto.

La leggerezza surreale, peraltro, non evapora del tutto neanche nell’ultima parte, lasciando nei costumi scelti per la terza parte, una sorta di strana leggiadria, disegno quasi sognante e infantile, con l’apparire di figure silvestri sotto vestiti verdi fatti di piccoli filamenti che, nell’accostamento ironico, fanno ricordare il cugino It della famiglia Addams, ma in total green.

foto di scena Franco Guardascione

La recita è ben interpretata, sostenuta non solo dalle scelte cui si faceva riferimento, ma anche da un’attenzione alla durata dello spettacolo, che mantiene viva la concentrazione ed evita di dilungarsi, favorendo quindi un ritmo che, unito al tema concettuale della variazione cui abbiamo fatto cenno, rappresentano, a parere di chi scrive, la parte tecnica più innovativa e interessante, che distingue questa creazione dalle altre.
Dentro una forma generale che rimane coerente con il segno caratteristico della compagnia, Baccanti unisce la tradizionale capacità di ricerca e indagine poetica e letteraria a una nuova strada possibile, che porta dentro la creazione nuovi ritmi dell’azione scenica e formule compositive capaci di valorizzare gli intervalli e le variazioni, a tutto vantaggio del risultato complessivo.
Vedremo che sviluppi potranno avere queste nuove strade interessanti nelle prossime realizzazioni, a partire da quella alla Futa fra fine luglio e inizio agosto, a cui invitiamo i lettori ad assistere, come evento ormai rituale irrinunciabile dell’estate teatrale italiana.