Proprio perché non riesci a sintetizzarlo in una didascalia, scassa ogni museruola creata ad arte dalla critica letteraria, è insopportabile. Fëdor Dostoevskij non lo puoi leggere, lo soffri, ti arriva addosso facendo un pagliaio del costato, un falò delle beate convenzioni che tengono in piedi la palazzina della tua vita, buona, sana, giusta. “Ma Dostoevskij, come i santi in cerca di salvezza, ascolta senza tregua una voce che gli sussurra: Osa! tenta il deserto, la solitudine. Sarai bestia o Dio. Fra l’altro, nulla è certo anzi tempo. Comincia col rinunciare alla coscienza che pretende di apprendere ogni cosa, e dopo vedrai”, ha scritto Lev Sestov, il grande filosofo russo, l’unico che abbia accolto, esaltandoli, gli aspetti esasperati, impossibili, a morsi in faccia, dell’opera di Dostoevskij. Così, quando leggo che Archivio Zeta – cioè: Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni – ‘festeggia’ vent’anni di attività teatrale in direzione anomala – hanno lavorato su Werner Herzog e Elie Wiesel, compiendo, soprattutto, una originale catabasi nel teatro greco antico – portando Dostoevskij nel Cimitero militare germanico della Futa, l’immane sepolcro, inaugurato 50 anni fa, dove sono accolti oltre 30mila soldati tedeschi morti durante la Seconda guerra, mi dico: è perfetto. Dostoevskij va brandito dove la Storia è una contraddizione permanente, una ferita che ancora sbraccia. Dostoevskij va nei luoghi imperdonabili, è lì, implacabile, dove non c’è più nessuno – lì a distillare l’ultimo grado di uomo dalla tenebra, a confermare che l’ultima parola non è stata ancora pronunciata, che ancora un gesto è da fare e che tutto può rialzarsi. Il lavoro di Archivio Zeta si intitola Pro e contra Dostoevskij ed è in atto al Cimitero militare germanico dal 13 luglio al 18 agosto (qui tutte le informazioni): denunciano di usare materiali tratti da Il sogno di un uomo ridicolo e da I fratelli Karamazov. Sono i testi cardinali, dove FD ci tenta a percorrere le vie estreme – l’assoluto nichilismo, l’indifferenza regnante –, ci induce alla crisi, alla ricapitolazione dei nostri errori, per sfogare nella conversione, radiosa, inaccettabile – non c’è risposta che dia pace. In mezzo, il discorso sull’Occidente – minato dalla tecnica, dal lavoro meccanico, che sottrae l’individuo al creato e al creare – compiuto da FD dopo i viaggi, soprattutto, a Parigi e a Londra (che leggete in Note invernali su impressioni estive). “Ciascuno di noi è colpevole davanti a tutti per tutto, e io più di tutti gli altri”, dice Zosima nei ‘Karamazov’. Ed è questo – la responsabilità verso il prossimo, la comune colpevolezza, la ‘catena’ umana nel crisma del perdono – il tema che ricorre, rincorrendo una ossessione, il punto dolce in cui polverizzare il male, nel lavoro esagerato di Dostoevskij. Da qui, se ne parla. (d.b.)

Dostoevskij è materia che brucia. Qual è il punto centrale che avete toccato, il tema determinante?

Il tema dominante è questo: se si va al di là del bene e del male, allora tutto è permesso. C’è un capitolo di Se questo è un uomodi Levi che si intitola Al di qua del bene e del male. Questo è stato il punto di partenza verso Dostoevskij. Il lager è la destinazione finale di un lungo viaggio partito dalla Londra dell’Esposizione Universale. La civiltà occidentale voleva fare quel viaggio e lo ha fatto fino in fondo. Non ci siamo ancora ripresi. Come dice Elie Wiesel il fall out di Hiroshima continua a precipitare su tutte le questioni morali, sociali e politiche. Volevamo fare uno spettacolo sull’indifferenza e sul relativismo morale che circola dappertutto e appunto Dostoevskij è materia ancora incandescente. In esergo alla confessione di Ippolit nell’Idiota c’è la frase Après moi le déluge: è la sintesi del pensiero capitalista che sta distruggendo il mondo. La bellezza non salverà il mondo ma abbiamo il dovere di provare a modificare lo stato attuale delle cose, anche per quell’infinitesima percentuale che ci riguarda.

Nel “Sogno di un uomo ridicolo”, che vedo essere tra i materiali del vostro lavoro, c’è il tema della caduta, per gesti compiuti, sempre, “a fin di bene”. A fin di bene, ci dice FD, si finisce per fare il peggiore dei mali. Che caratura ‘politica’ ha il vostro lavoro?

Tutto il Novecento ha compiuto crimini a fin di bene, Dostoevskij lo aveva capito in anticipo. Nel Sogno poi c’è anche il tema del paradiso perduto e del volo cosmico. È un racconto visionario. Le infinite lapidi del cimitero germanico Futa Pass sono da quindici anni il campo di battaglia delle nostre visioni e la scenografia di senso dei nostri spettacoli. È il coro muto di ogni tragedia che mettiamo in scena. Lì dentro tutto è politico perché ogni nome ci parla dell’aberrazione a cui la politica può condurre l’essere umano. Nello stesso tempo ogni gesto artistico è politico quando interroga il tempo presente. Parise, autore che abbiamo messo in scena, diceva che il nazismo è nella vita quotidiana: dobbiamo prendere seriamente queste parole per capire a che punto siamo arrivati oggi nella civile Europa.

‘Politica’, per altro, è la scelta del luogo in cui realizzate il lavoro: il cimitero germanico della Futa, dove sono sepolti 30mila soldati tedeschi, i vinti, i ‘cattivi’… Raccontatemi perché quel luogo. 

Il Cimitero della Futa è un’opera architettonica paragonabile, quanto a dimensioni e impatto sul paesaggio, al Cretto di Burri. Quando ci siamo entrati la prima volta nel 2002 abbiamo subito capito che poteva essere un teatro, il nostro Teatro di Marte, come lo chiamiamo riferendoci a Karl Kraus. È diventato il nostro “parlatorio” perché ci pone delle domande scomode, radicali, non retoriche, ci interroga in profondità, ci dice da dove veniamo: perché esiste il male, perché l’essere umano è cattivo? Le stesse domande che, con disarmante tragicità, si ponevano Eschilo o Dostoevskij.

All’accusa di questo mondo – nichilista, relativista, dominato dal Baal della tecnica – Dostoevskij risponde con una religiosità cruda. L’uomo ridicolo, infine, si converte, passa dal ritenere che nulla abbia senso all’amore universale. Eppure, egualmente, viene creduto pazzo dal ‘mondo’, dalla ‘società’ del bene perbenista, come se gli estremi del pensare siamo egualmente inaccettabili. Nel vostro lavoro questo slancio verso il ‘folle di Dio’ c’è?

Noi siamo atei ma la riflessione che Dostoevskij conduce a partire dal Sottosuolo, non appena tornato dal primo viaggio in Europa, il suo attacco frontale al Palazzo di Cristallo, dominato appunto dal Baal della tecnica, ci interessa perché è di una attualità sconvolgente. La sua cruda religiosità è parte di questa posizione filosofica estrema. Noi cerchiamo di leggerla nel vasto respiro della sua opera. Siamo affascinati dal sacro, perché lo abbiamo totalmente rimosso dalla nostra vita. Siamo combattuti. Siamo pro e contra Dostoevskij, come dice il titolo dello spettacolo, che è anche il titolo del cuore filosofico de I fratelli Karamazov. Nel nostro lavoro sicuramente c’è uno slancio folle, una fiducia quasi mistica nei confronti della parola poetica e filosofica. Da questo amore per le parole nasce il nostro lavoro teatrale.

Scrivete, al termine della scheda che narra il lavoro: “In quest’epoca di terrore e di follia insensata risaliamo in un volo cosmico fino a Dostoevskij, per andare alle radici della storia della società massificata dove potere, economia e politica si saldano per sfociare nei totalitarismi che abbiamo conosciuto e, forse ancor di più, nell’attuale sistematica distruzione del pianeta”. Che importanza può avere, messa in scena, la parola letteraria? E poi: non vi pare di essere disperatamente esagerati? 

Sì, citavamo Zagrebelsky, che ha scritto il saggio forse più lucido e importante degli ultimi anni sul Grande Inquisitore, Liberi servi. Ci ha fatto da guida nella composizione del testo. Nel nostro spettacolo ci sono sia la scena del Diavolo che nel romanzo avviene molto avanti, sia il Grande Inquisitore. Sono vertici della letteratura e del pensiero filosofico. Ma la parola letteraria di Dostoevskij non è mai compiaciuta, è sempre drammatica, è orale, lui dettava i romanzi interpretando le voci dei personaggi: è il più grande (anche in senso quantitativo) drammaturgo moderno insieme a Ibsen. A volte leggendolo e rileggendolo si ha come l’impressione che abbia scritto un unico grande romanzo ossessivo e che questo grande romanzo altro non sia che una enorme opera teatrale fatta di confessioni, monologhi interiori, scene madri, allucinazioni, dialoghi platonici, fantasticherie. Tutti i suoi materiali sono pronti per essere detti, sono azioni, non descrizioni. Certamente, siamo disperatamente esagerati ed esageratamente disperati, altrimenti non potremmo accostarci a Dostoevskij che è molto più esagerato e disperato di noi.

Potrei concludere, “solo un Dostoevskij ci può salvare”. È così? Da dove giunge questa necessità di avvinghiare Dostoevskij dopo il lavoro di scavo che avete fatto, ad esempio, nel teatro antico?

È così: la sua opera è di una bellezza stordente. Abbiamo in programma di lavorarci per i prossimi anni. Un lungo lavoro di scavo quasi archeologico per disegnare una topografia tragica dispersa nei diversi racconti e romanzi. Dopo molte tragedie greche e dopo Kraus avevamo necessità di un altro monte da scalare e abbiamo pensato che la Russia e quel sottosuolo fossero la meta più giusta per noi.