Controscene. Un dialoghetto teatrale di buon anno

Massimo Marino | 31/12/2012 | Corriere di Bologna / BOblog

angelica

Controscene. Un dialoghetto teatrale di buon anno

A: Buon giorno!

B: Buon anno!

A: Buon anno a te. Cosa farai quest’anno?

B: Molte cose.

A: Continuerai ad andare a teatro? Non ti sei stufato? Mi sembra che tutto sia fermo, in quel mondo, da tanto tempo. I nomi sono sempre quelli. I grandi attori e le grandi attrici. I venerati registi e i fenomeni emergenti. I gruppi storici della ricerca e quelli giovani. La prosa e il contemporaneo. Il teatro delle diversità e quello di intrattenimento. Il teatro civile, quello sociale, quello visivo e quello di drammaturgia, il teatro-danza, quello di poes1ia, quello di narrazione. Gli omologati, i finanziati, gli eterni scontenti, i guastatori… Tutti ben barricati dietro le loro etichette, lance usate un tempo per conquistare il mondo, oggi fragili scudi per scampare la tormenta.

B. Un’amica attrice ha detto, qualche giorno fa, che qualcuno contro il vento della crisi …

A: Ecco un’altra parola passepartout…

B: … ha detto che qualcuno contro i venti che tirano nella società erige muri per difendersi, mentre lei preferisce costruire mulini per trasformarne la forza.

A: Ma se il vento che spira è di tempesta, non frantumerà le pale dei mulini? Oggi iniziamo a fare i conti con i tornado tropicali. Ma non hai risposto alla mia domanda: continuerai ad andare a teatro?

B: Ci vado quasi tutte le sere da molti anni. In cerca di ciò che scarta dalle etichette (anche se poi neppure io so esimermi dal fabbricarne). Spinto dal bisogno della voce che ti accarezza e ti frusta, portandoti verso albe, notti, montagne, mari; del gesto in controtempo, del bagliore contrastato  d’ombre del pensiero. Ascolto l’azione che contraddice la parola e vedo la poesia ruvida come un pugno, disperata come una carezza. Attendo la storia che mi incanti, nutrendo tutta la mia diffidenza, e quella che mi scortichi verso il risveglio dell’intrattabile realtà. Tu sai di cosa parlo.

A: Non capisco. Ti perdi nei poeticismi. Riesci a illustrare quello che dici, a fare qualche nome?

Foto di Futura Tittaferrante

B: Potrei raccontarti quello che ho visto l’anno passato (è finito solo da un giorno e lo chiamiamo già così). Ciò che mi ha risvegliato dalla noia, dal sonno, dal malanimo e dall’ansia che mi prende certe volte a vedere gli attori impegnati a svolgere un compito per arrivare alla sospirata cena. Potrei allora ricordare la voce di quell’attrice che, disperata d’abbandono, accarezzava rovistando dentro, nella cartiera. O di quello che si spezza in voci-personaggi e ti mette – te spettatore – sulla graticola della tua presunzione di innocenza. O di quell’altra che col suo compagno clown lunare senza naso rosso enumerava i taccuini di una donna polacca a ha annotato puntigliosamente tutto ciò che le avveniva nella vita di ogni giorno cercando di strapparlo allo scorrere del tempo fissandolo, senza mai vincere la lotta contro la realtà. Vedo ancora le mani ruvide dei giardinieri e le gambette esili sotto i tutù delle fatine. E il collega che suda in pelliccia o nei ricordi d’infanzia del poeta, dopo aver attraversato il proscenio e essersi trasferito dall’altra parte del palco. Se leggi nel blog (o vai su Doppiozero), ritrovi tutto questo e altro, fino a quel diabolico ring della famiglia di solo qualche ora fa…

A: Sensazioni, sensazioni. Oggi, scusa, è tempo di contemporaneità.

B: Se capissi cosa vuol dire! Sono stufo, però, lasciamelo di dire, di illustrazione di concetti. Di dichiarazioni che si esauriscono in atti scialbi, che illustrano le dichiarazioni stesse. Se questo è contemporaneo, se dobbiamo riprodurre la forma del tempo che ci trapassa, qui mi dichiaro antico.

A: Ecco l’anima vecchia, la palude, il fango

B: Abbiamo bisogno di favole e di passioni. Abbiamo passato molto tempo, di recente, a smontare giocattoli, per perdere la capacità di vedere, di sentire oltre. Di comprendere, con gli altri.

A: Ma un paio di nomi?

B: Lo so che ti chiedo molto. Prova a rileggere gli articoli. Anche (forse soprattutto) quelli dove dichiaro un pentimento per non aver saputo vedere.

A:Cosa mi consigli, quest’anno?

B: Un antico maestro dalla fluente barba bianca che gioca con fragili uomini armati di legno, e con il ritmo incantato del racconto. Fino alla Befana lo trovi a Roma, all’Auditorium (compie i cinquant’anni in scena), poi in febbraio, agli inizi, a Bologna. Il teatro di quei carcerati che da anni, vi racconto, sperando che arrivi il teatro stabile che meritano, per far dilagare la loro instabile, convulsa ansia di vivere, di interpretare. Fai un salto alla nuova Biennale Danza, che nei prossimi tre anni inventerà con corpi esercitati, virtuosistici, e con i gesti di persone normali, bambine, vecchi, donne… Ascolta le storie amare sul nostro presente confuso che rimbombano da Ravenna e le voci ferite, annullate, o arrochite, di due dolci, forti, minuscole, gigantesche signore.

A: Chi sono?

B: Raccontano della compassione di Rosa Luxemburg per un povero animale battuto, mentre lei era segregata in prigione. Lo vedrai a Bologna sotto quella cupola di periferia che ha vinto un importante premio. Perché sa ascoltare.

 

A: Tutto qui?

B: Se puoi, in agosto prendi la macchina e sali sugli scabri monti d’Emilia, verso la Toscana. Nel luogo di tutti gli oltraggi, su quella che orgogliosamente chiamarono Linea Gotica, 40.000 militari invasori dormono nel silenzio dei pendi. In quel mese, tra quelle semplici lapidi, verso l’ala spezzata che guarda le cime, sentirai le arcaiche parole delle tragedie della vendetta e del rimorso, che risuonano come un canto che fonda la nostra democrazia ingannevole e feroce, la nostra colpevole sensibilità e la nostra inadeguata ragione. Là, forse, riscoprirai il senso, l’urgenza del teatro. La sua bella semplice lacerante verità. E non mancare di vedere una città intera in scena, a Modena, in maggio, in cerca del significato di un’espressione con cui ci bombardano: la nostra identità europea. Ma ora scappo.

 

Foto di Franco Guardascione

A: Aspetta. Sarebbero tante le questioni…

B: Già: compresa quella che ciò che ci travolgerà, ciò che aprirà la strada a nuove visioni, è quello che non ci aspettiamo.

A: Ma almeno una: cosa ne pensi della critica teatrale, tu che ti lasci definire con questa impegnativa etichetta?

B: Già. Dalle sigle non si scappa. Ho fretta, devo uscire. Sai, non sto sempre chiuso in una sala buia. Per questo, ti ricopio, di furia, un pensiero annotato qualche tempo fa.

A: Sentiamo…

B: La critica dovrebbe essere come le riviste letterarie storiche, come le raccolte poetiche ciclostilate di Roberto Roversi, come i libri (quelli belli) pubblicati a proprie spese, per preservare la propria diversità, senza padroni. L’industria culturale (e il finanziamento pubblico, gli assessori, anche quelli che dicono…) hanno assicurato reddito o influenza all’intellettuale in cambio di omologazione.

A: Cioè?

B: Lo scarto. Cerca lo scarto. Ora ti sfuggo e scappo. Auguri.