Bombe su di noi – “Gli ultimi giorni dell’umanità” di Archivio Zeta

primaConsiderato il silenzio, il respiro della montagna,  la luce del tramonto, e le 36.000 tombe di soldati tedeschi ordinate su un’immensa distesa d’erba, basterebbe veramente poco – una sonorizzazione imponente, un coro di figuranti nutrito, qualche virtuosismo facile con la eco – a trasformare il cimitero militare germanico della Futa in un palcoscenico teatrale inutilmente eccezionale come altri, schiacciato dalla retorica posticcia della sua stessa monumentalità. Un palcoscenico su cui mettere in scena il tema della guerra, che, nel centenario del primo conflitto mondiale,  nella tomba a cielo aperto di un carnaio umano, sembra a prescindere cosa buona, e giusta, politicamente corretta, scelta teatrale vincente ed emotivamente impareggiabile.
Archivio Zeta, compagnia che da anni allestisce spettacoli alla Futa, confrontandosi soprattutto con i classici greci, e più di recente con la drammaturgia contemporanea, evita, uno per uno, ciascuno di questi pericoli.

musicaPonendo mano,  nel nuovo lavoro debuttato il 2 agosto, all’enormità di materiali raccolti da Karl Kraus ne Gli ultimi giorni dell’umanità, non cede mai al gusto della deriva romantica,  non colonizza lo spazio, non lo adatta, non lo trasfigura, non lo risemantizza, non ne fa cornice di lusso, non lo invade con l’amplificazione; attraverso un percorso a stazioni Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni, registi-autori-attori, qui nei panni di ottimista e criticone, ciceroni, guide, collante drammaturgico e commento al commento brechtiano,  insieme agli altri attori, lo abitano a momenti in successione, costruiscono tracce di significato nella parola detta a voce nuda, anche quella dei bambini, meno impostata, meno potente,  più faticosa da conquistare all’ascolto.
Il teatro non riveste lo spazio, accende un focolaio dopo l’altro come nella Via Crucis, attiva pezzo a pezzo potenziali di significato a partire dal già noto. La particolare asciugatura emotiva che caratterizza il lavoro di Archivio Zeta, a contatto con 36.000 lapidi, diviene violenza. E a forza di distanza e di freddezza ci si commuove.DSC_5491_530658

Gli ultimi giorni dell’umanità accompagna il pubblico attraverso le tappe della prima guerra mondiale, dall’assassinio di Sarajevo, alle piazze in cui gli strilloni ne danno notizia, al livore patriottico insegnato nelle scuole, centrando il taglio sulle derive della stampa, della riproducibilità e notiziabilità dell’orrore, su quei fatti che sotto la dittatura dell’inchiostro paiono essere esistiti solo per chi li ha raccontati, per chi non li ha vissuti, paradossalmente. Ed è più o meno a metà dello spettacolo, a partire dalla scena dedicata all’esecuzione di Cesare Battisti, a quella foto di gruppo dell’umanità scattata il 12 luglio1916 che ritrae non solo il giustiziato tra gli astanti, ma il fotografo che ritrae se stesso mentre fotografa la macabra scena,  il registro si inasprisce, la denuncia si fa diretta, fuor di metafora e scevra di ironia, la ferocia si ispessisce.DSC_4878_530045

Il discorso sulla guerra, ovvero sulla strage come modo più pratico in cui procedere per una umanità che ritiene indispensabile per la vita ammazzarsi a vicenda, diventa stringente e infila accuse ai popoli che sbagliando non solo non imparano ma disimparano e sparano.  Nel Parlatorio d’Europa, sulla immensa distesa di lapidi, le accuse si rivolgono ancora più dolorosamente alle tombe stesse, a quei ventenni che non si sono ribellati all’inganno, morti per un onore e una patria che neppure conoscevano, sacrificati all’altare dell’altrui profitto, caduti per offrire le proprie tombe come curiosità da visitare ai turisti. I bambini, con una maschera antigas, avanzano verso il pubblico, elencando una serie di visioni di morte senza tempo né luogo, pronunciando l’orrore a ritmo regolare, come fosse un esercizio di stile, tutto uguale, con la stessa metrica, lo stesso respiro narrativo, impassibile e potentissimo al cortocircuito con la drammaticità del racconto; dei bambini che fanno dondolare e girare gli impiccati in un viale di forche, un cane ferito da un soldato, affamati che mangiano la carne di morti di fame, una bomba che esplode su una scuola. trincea

Quello di Archivio Zeta è uno spettacolo dove tutto è gestus brechtiano, ma nutrito da Pasolini: è azione simbolica e simbolo smontato, parola che dice e insieme accusa quel che dice, è didascalia recitata con distacco e  poi squarcio doloroso, parodia e ferocia, superficie del racconto e fondo ruvido della vita.

E’ gestus la parola che evoca l’azione mentre esibisce un giudizio già espresso, che inneggia alla guerra come causa giusta, suscitatrice di eroi e vivaio di virtù, come processo di purificazione e rigenerazione, cavalcando fino in fondo la metrica antinaturalistica; la musica che accompagna l’azione, fisicamente, visibilmente con gli altoparlanti indossati da un attore, gli inni e le marce viennesi collezionate attraverso una sofisticata ricerca d’archivio da Patrizio Barontini; e i personaggi senza tridimensione, colonizzati da un generico stato d’animo di disperazione, o di solennità e cordoglio, o ancora di retorica patriottica, a metà tra l’individuo e la foto di gruppo della specie, l’uomo irripetibile al di sotto dell’Umanità, il singolo, la storia, e insieme metonimia dell’umanità intera. Un soldato vale l’altro, disperatamente, in quelle lettere al fronte, in quella nomenclatura del cuore spezzato, della solitudine e del dolore, dell’amore indicibile e folle di chi vive lontano, recitate senza strazio, e con strazio ancora maggiore, nei corridoi stretti tra le lapidi, diventati trincee di pietra.maschere

Lo spettacolo smonta così la retorica che dimentichiamo di subire, ci ricorda che i morti di cento anni fa non sono meno sciagurati di quelli di oggi, che la distanza e l’inchiostro hanno reso eroi dei ventenni disgraziati come i nostri; e ci costringe ad affrontare uno scuotimento inatteso, a scavare nel cordoglio di fronte a un soldato  morto, nel perturbante della guerra, nella febbre di vita e nell’estremismo dei sentimenti che essa produce e che ci commuove, nostro malgrado. Svela la nostra stessa debolezza di uomini che hanno bisogno di aggrapparsi alla morte per sentire la vita, disinnesca la perversione di un sentimento di onore ai caduti che sono caduti senza onore e che abbiamo promosso a eroi nei nostri libri di Storia.
Ci meriteremmo allora forse davvero la distruzione della specie annunciata dalla voce dall’alto di Luca Ronconi nel finale; noi che, oltre ogni facile retorica, siamo veramente ancora ben capaci, e forse più di prima, di colpire le farfalle con il cacciamosche e di toglierci dalle dita la loro polvere colorata perché devono essere pulite per toccare l’inchiostro da stampa.

Visto al Cimitero militare germanico della Futa (Firenzuola) il 2 agosto 2014

In replica alle 18 tutti i giorni fino al 17 agosto.
Ingresso euro 20; ridotto 10 euro per under 18; 18 per gruppi pullman e soci Touring Club. Prenotazione obbligatoria: www.archiviozeta.eu, 334/9553640. Da Bologna autobus  l’11 e il 15 agosto al prezzo complessivo di 30 euro (prenotazioni 334/9553640; partenza da piazza Malpighi alle 15.45).