Yoknapatawpha, terra divisa

Sound and fury / Big woods

di William Faulkner

Yoknapatawpha, terra divisa

Sound and fury / Big woods
di William Faulkner

Avevamo bisogno di parlare, di raccontare, perché l’oratoria è la nostra eredità.
Sembra che cerchiamo nel semplice intervallo furioso in cui l’individuo respira
di abbozzare un’accusa furibonda dello scenario contemporaneo
oppure di scappare da esso e rifugiarci in una regione fittizia
di spade e magnolie e tordi che forse non è mai esistita in nessun luogo.

Introduzione a L’Urlo e il Furore, William Faulkner, 1933

drammaturgia e regia Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni
con Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni
e i cittadini-attori del Gruppo Logos di Volterra e del laboratorio di Bologna
partitura sonora Patrizio Barontini
oggetti scenici e luci Antonio Rinaldi
assistente Beatrice Vollaro
assistenza tecnica Andrea Sangiovanni
assistenti alla produzione musicale Paolo Samonà e Fabio Vassallo
cura Rossella Menna
coordinamento organizzativo Luisa Costa
cuffie Silent System
registrazioni realizzate in collaborazione con il corso di alta formazione La musica e il suono nelle produzioni cinematografiche e nell’audiovisivo promosso dalla Regione Emilia Romagna, Demetra Formazione e Studio Modulab
produzione Archivio Zeta
con il sostegno di Bé bolognaestate e Carte Blanche/VolterraTeatro

YOKNAPATAWPHA

Yoknapatawpha (ioknapatofa) deriva da due parole Chickasaw – Yacona e Petopha – e significa terra divisa.

Questo è il nome di una immaginaria contea del sud degli Stati Uniti dove William Faulkner (Premio Nobel per la letteratura nel 1949) ha ambientato molti dei suoi romanzi, racconti e il suo unico testo teatrale Requiem for a nun (Requiem per una monaca).

A detta di Faulkner questa parola potrebbe significare anche acqua che scorre attraverso un terreno pianeggiante: il Mississippi!

I Chickasaw erano nativi americani e abitavano originariamente appunto nel Mississippi settentrionale e nel Tennessee occidentale. Furono poi deportati nel Territorio Indiano, il futuro Oklahoma, terra degli uomini rossi, sul Sentiero delle lacrime negli anni 1838 e 1839 assieme ai Cherokee, ai Choctaw, ai Creek e ai Seminole, le cinque tribù civilizzate.

Iniziamo col dire che Yoknapatawpha, il titolo di questo dittico costituito da Sound and Fury e Big Woods, è parola inventata per designare un paese che non c’è, nominato nella lingua estinta di un popolo sterminato.

Siamo nel territorio di u-topia: come u-Macondo di Marquez o u-Combray di Proust, così come la Monument Valley di John Ford in quel documento straordinario che è il suo film Cheyenne Autumn. Esiste o non esiste? Non è certo una eu-topia e neppure una dis-topia. Yoknapatawpha non esiste in nessun luogo, non c’è: è una lunga frase senza respiro. Eppure sono mondi.

William Faulkner ha pure disegnato una mappa dettagliata della sua contea utopica: qui vive The Sound and the Fury, qui è ambientato Go down Moses, poco più sotto Light in August oppure Absolom, Absalom! – un paese della mente, del pensiero, della scrittura e della lingua. Tutto Faulkner si riversa in Yoknapatawpha Country, il suo carico di tuono da predicatore che dal pulpito grida la sua furiosa geremiade, una lamentazione che saccheggia l’Antico Testamento, la tragedia greca, Melville, Joyce, i negro spirituals, le visioni sciamaniche, il cinema. La pagina è intrisa del sound delle lingue sterminate e della schiavitù. La terra è divisa in rettangoli già prima dell’estinzione dei dinosauri.

Giriamo intorno a Faulkner da due decenni: una scrittura che in realtà è oratoria, vuole essere detta, cantata, lacerata, perché magma che contiene in sé tutta l’immensa ricerca delle lingue perdute: la lingua di Moses, di Absalom, di Ikkemotubbe, di Issetibba, di Joe Christmas, di Eulalia, di Clytemnestra Sutpen, di Temple Drake, di mamma Callie.

Percorrendo la mappa di Faulkner è nata naturalmente questa drammaturgia, una costellazione che da The Sound and the Fury si collega a Big Woods, da Requiem for a nun si collega a Go down, Moses: un testo che parla di odio, sopraffazione, distruzione, divisione.

E così siamo arrivati a Yoknapatawpha nell’anno in cui abbiamo deciso di mettere in scena al Cimitero Militare Germanico del Passo della Futa il nostro primo Shakespeare: Macbeth.

Per noi che ci portiamo, sulle spalle e addosso e dentro, queste parole, dopo averle passate alla ruota dell’architettura e della storia del Cimitero Militare Germanico del Passo della Futa, luogo dei carnefici, dei nemici ma anche dei vinti, per noi la materia diventa incandescente perché si carica di ogni sound and fury della contemporaneità.

Immaginiamo il nostro Macbeth come un uomo nuovo, un antieroe, portatore del giusto e dell’ingiusto, un Copernico, che sulla soglia tra Cinquecento e Seicento mette in discussione lo stato delle cose, si muove tra il retaggio simbolico ancora precario nella concezione del mondo e il nuovo relativismo che porta già verso la modernità.

La nostra lettura di Shakespeare cerca di interrogare la parola senza affidarsi al deposito di interpretazioni e soprattutto alle immagini che si sono stratificate attorno al bozzolo originale.

Non quindi solo (se non fosse abbastanza) una tragedia del e sul potere e sulla potenza ma una riflessione sulla possibilità, sull’uomo in potenza: tempo libero e tempo liberato dalle certezze, l’uomo non più centro ma immesso nel vuoto di orbite sconosciute. Questo è il balzo dell’essere Macbeth, il suo essere globe: l’essere catapultati in un tempo nuovo dove anche le antiche categorie morali diventano relative, dove il bello è brutto e il brutto è bello, il colpevole è giusto e l’innocente è colpevole.

La paura di Macbeth è quindi quella che diventa (s)oggetto della mente, paura delle azioni, di ciò che potrà compiere ponendosi fuori dall’ordine delle cose, violando l’ordine simbolico, scardinando l’assetto del Cosmo Simbolico di cui il re (pianeta terra, occhio centrale) è sacro garante. Nel suo atto di togliere il mondo dalla sua posizione di centralità, l’uomo tenta la traversata oceanica, oltrepassa le Colonne D’Ercole, sfida la paura dell’abisso. La paura del tempo, simbolicamente circolare: un estromettersi dal regime diurno (la tragedia si svolge per gran parte in una lunga notte), dal mondo della luce. Allora una spessa notte cade su quest’uomo nuovo, affinché l’occhio non veda l’azione, il colpo che dovrà essere sferrato, la mano che compie il delitto, il male.

Ma da dove viene questo male? Continuiamo, quotidianamente, nel nostro lavoro, a farci questa domanda. Chi spinge Macbeth verso il male?

La coscienza è al bando in quest’uomo che vuole conoscere l’Universo, che vuole spingersi più in là, che mette in discussione le sacre regole del cosmo, che ha paura dell’ignoto e che la conoscenza porterà all’orrore, orrore di sé, di ciò che il suo gesto da assassino ha partorito. Come Paul Tibbets che, con una sorta di terrificante ironia, diede il nome di sua madre all’aereo che pilotava – Enola Gay – e Little Boy (ragazzino) alla bomba che portava in grembo e che avrebbe sterminato circa 200.000 esseri umani ma che allo stesso tempo avrebbe posto fine ad una guerra mondiale (So foul and fair a day I have not seen).

Che genere di mondo è quello che ne è sopravvissuto? Chi siamo noi? Quanto è salda la nostra ossatura morale? Forse in questo senso possiamo pensarci sicuramente più simili a Macbeth che a Prometeo.

Si compie quindi un arco ideale, dopo Edipo Re, l’Orestea e Pilade, lungo il quale un eroe tragico accoglie il male e volontariamente si spinge nelle tenebre, al cuore della tenebra, chiede che si spengano le stelle, che giunga l’oscurità per nascondere il proprio atto, l’abisso sconosciuto della sua ambizione e che la ragione si oscuri.

Macbeth per noi è anche l’uomo che varcherà l’Oceano e che, con mani sporche di sangue, costruirà il Nuovo Mondo.

Mondo che William Faulkner nella sua opera ha raccontato e indagato fin dalle origini in tutta la sua complessità: basti pensare ai magnifici prologhi di Requiem, talmente belli che poi furono ripresi anche in Go Down, Moses e infine in Big Woods, quasi che Faulkner stesse scrivendo un’unica vasta opera, con ripetizioni e variazioni.

Yoknapatawpha è una installazione performativa itinerante, con la partecipazione di due gruppi di cittadini di Bologna e di Volterra che per mesi e mesi hanno studiato, discusso, un’azione teatrale che si ispira alle tecniche di smontaggio e rimontaggio frammentario della realtà messe in atto dalla scrittura di William Faulkner a partire da L’urlo e il furore (The Sound and the Fury), opera sperimentale che a sua volta nasce come diramazione da un verso del Macbeth: un materiale in divenire in cui le voci aprono nuovi spazi sonori e nuove scenografie interiori, fino all’ultima sillaba del tempo registrato.

Requiem per una monaca è una commedia in tre atti, preceduti da lunghi prologhi non dialogati che riprendono le fila e riassumono la lunga saga di un’immaginaria città del Mississippi. Il primo prologo narra le origini, la sua trasformazione da una colonia senza nome via via a uno spaccio indiano e a una città pioniera, col Tribunale costruito da tutti i cittadini. Il secondo prologo racconta le origini del Parlamento indicandolo come predisposto dalla Storia della Creazione fin dalle origini del mondo. Il terzo prologo riprende la storia dal momento dello sradicamento degli Indiani, fino alla distruzione della Grande Foresta per lasciar spazio ai campi di cotone e alla ferrovia. (Piscator e Camus osarono metterlo in scena).

Noi ci siamo fatti guidare proprio da questi epici prologhi per attraversare il mondo di Faulkner.

Questo dittico è quindi un furioso viaggio dalla Scozia al Mississippi. Un viaggio di scoperta e di conquista.

E infine è anche, dopo La ferita – Logos/Rapsodia per Volterra e dopo Pilade, dopo aver attraversato la Città ferita e la Città sospesa, un atto di fondazione di una provvisoria Città ideale: una città in cui cittadini-filosofi, disinteressatamente si dedicano alla poesia, all’arte, alla politica, al teatro, al pensiero, alla metafisica.

Soltanto prendere e perdere tempo con la complessità e la cultura ci potrà salvare: Liberté, Égalité, Fraternité…perché nessuno aggiunge Cultura? direbbe Iosif Brodskij. Quante città ideali si sono trasformate in città infernali? E quanta responsabilità e quanta grazia dobbiamo ancora infondere nel principio speranza?

Sarà proprio in questa disperata ma vitale responsabilità, mentre tutto intorno a noi sta naufragando, in questa creazione di temporanee comunità ideali che, forse?, potremo criticamente insistere e ricominciare, ripetendoci con le parole di Jean-Marie Straub che “non c’è lotta delle classi senza tenerezza. E se non c’è tenerezza non c’è niente”. Classi di una scuola ideale che ha partecipato, studiato, osservato, parlato, applaudito, discusso, donato; lotta di una classe trasversale che si è andata formando attorno a questo altrettanto ideale edificio.

Diventiamo architetti e prendiamo i boschi a modello per costruzioni future.
I Temi di Fritz Kocher, Il bosco – Robert Walser

dittico da Shakespeare/Faulkner

Per il terzo anno consecutivo, dopo le due indimenticabili creazioni collettive La Ferita e Pilade/Campo dei rivoluzionari alla Salina di Saline di Volterra, il festival VolterraTeatro ha sostenuto, nel corso dei mesi invernali, il laboratorio permanente Logos della Compagnia Archivio Zeta, condotto da Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni.

La creazione di quest’anno, Big Woods, dal titolo della celebre opera di Faulkner, vede in scena un grande gruppo di oltre quaranta cittadini-attori di ogni età, ed è preceduta da Sound and Fury, che vede invece in scena i cittadini-attori del laboratorio che Guidotti e Sangiovanni hanno tenuto parallelamente a Bologna.
Entrambi sono preludi al progetto artistico 2016 di Archivio Zeta dedicato al Macbeth di William Shakespeare, e vengono presentati a Volterra in un lungo dittico intitolato Yoknapatawpha.

Si attraversa il centro di Volterra per arrivare al Teatro Persio Flacco, guidando il pubblico in un grandioso e furioso viaggio dalla Scozia al Mississippi, un viaggio di scoperta e di conquista, tra foreste, orsi, fiumi e indiani Chickasaw, per un dittico faulkneriano che funge da preludio collettivo del nostro Macbeth.

La coscienza è al bando in Macbeth, in quest’uomo nuovo che vuole conoscere l’Universo, che mette in discussione le sacre regole del cosmo, che ha paura dell’ignoto e che la conoscenza porterà all’orrore e alla distruzione degli altri, di sé, della natura. Da dove è venuto e dove ci ha condotto tutto questo male? Macbeth per noi è anche l’uomo che varcherà l’oceano e che, con mani sporche di sangue, costruirà il Nuovo Mondo. Mondo che William Faulkner nella sua opera ha raccontato e indagato fin dalle origini in tutta la sua complessità.

SOUND AND FURY Yoknapatawpha#1

con Marina Artese, Antonella Bertini, Alessandra Bianchi, Francesca Biondi, Elisabetta Calari, Piero Giovannini, Sara Gugliotta, Antonia Guidotti, Elio Guidotti, Gianluca Guidotti, Vittorio Lega, Enzo Madonna, Daniela Masini, Francesca Mengozzi, Andrea Papa, Enrica Sangiovanni, Claudia Soffritti, Lucia Spada, Roberto Suprani, Elisa Tinti, Claudia Torresani, Nadia Trebbi, Maria Cristina Zamboni

 

La vita non è che un’ombra che cammina, un povero attore
che si agita sulla scena per la sua ora e poi non se ne sente più nulla; una favola
raccontata da un idiota, piena di urlo e furore
che non significa nulla.
Macbeth, William Shakespeare

Sound and Fury è un furioso viaggio dalla Scozia al Mississippi, una installazione performativa itinerante, con la partecipazione di un gruppo di cittadini da Bologna, un’azione teatrale che si ispira alle tecniche di smontaggio e rimontaggio frammentario della realtà messe in atto dalla scrittura di William Faulkner a partire da L’urlo e il furore (The Sound and the Fury), opera sperimentale che a sua volta nasce come diramazione da un verso del Macbeth: un materiale in divenire in cui le voci aprono nuovi spazi sonori e nuove scenografie interiori, fino all’ultima sillaba del tempo registrato.

BIG WOODS Yoknapatawpha#2 | prima nazionale | creazione originale per VT

con Simona Alderighi, Vania Baroncini, Annagrazia Benassai, Rocco Bertini, Valeria Bertini, Greta Burchianti, Giuseppangela Campus, Enzo Celotto, Valentina Cioni, Manola Del Testa, Ginetta Maria Fino, Yana Zoe Gioffreda,  Antonia Guidotti, Gianluca Guidotti, Elio Guidotti, Patrizia Labò, Giuseppe Mainieri, Mara Pacini, Patrizio Pampaloni, Silvia Pasquinucci, Maria Grazia Pozzi, Andrea Taddeus Punzo de Felice, Enrica Sangiovanni, Giacomo Santi, Paola Stellato, Alessandro Togoli

Io dovrei riferirvi ciò che affermo di avere visto; ma non so come fare.
Mentre stavo di guardia sulla collina
ho volto lo sguardo verso Birnam e ad un tratto mi è parso che
la foresta cominciasse a camminare.
A distanza di tre miglia potete vederla avanzare;
vi dico che la grande foresta è in marcia, si muove!
Macbeth, William Shakespeare

Nella profezia delle tre sorelle fatali, Macbeth cadrà quando la foresta di Birnam si sposterà al castello di Dunsinane. Il compiersi di questa profezia è un nodo fondamentale eppure, nel tessuto  drammaturgico di Shakespeare, quasi solo accennato. Perché una foresta? Chi sono questi uomini travestiti da alberi che avanzano verso Macbeth?  Facendo un salto siderale dalla Foresta scozzese alla Grande Foresta nordamericana abitata da indiani Chickasaw, dai bianchi, e dagli orsi, raccontata da William Faulkner, un coro di cittadini-attori si fa largo nella Città di Volterra con una marcia imponente. La marcia di una foresta squarciata dal cemento e dal catrame, ma straordinariamente ancora selvaggia e nobile: resistente.

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Yoknapatawpha, Terra divisa, Archivio Zeta a Volterra

YOKNAPATAWPHA | Renzia D’Incà | 20/10/2016 | Rumor(s)cena

“Yoknapatawpha”, la traversata di Archivio Zeta da Shakespeare a Faulkner

YOKNAPATAWPHA | Matteo Brighenti | 04/08/2016 | PAC

Sound and Fury Shakespeare/Faulkner

da venerdì 17 a domenica 19 giugno 2016 – ore 20 - Conservatorio G.B. Martini e Museo della Musica – Bologna

Yoknapatawpha, terra divisa Sound and fury – Big woods – un dittico da Shakespeare/Faulkner

29 luglio 2016 ore 18 - Volterrateatro 2016 – La Città Ideale