Anche all’arena del sole di bologna la montagna è incantata
24/03/2025
Alibi Online
Saul Stucchi
La montagna incantata – GENERALE
Un’unica domanda mi frullava per la testa in attesa di assistere alla maratona de La montagna incantata di ArchivioZeta al Teatro Arena del Sole di Bologna, sabato pomeriggio. Una sola, ma gigantesca: quanto avrebbe pesato in questo allestimento per un ambiente teatrale classico – pur inusuale allo sguardo dello spettatore abituato alle sale milanesi – l’assenza della montagna vera e propria?
A partire dal 2022 nel cuore dell’estate la compagnia ha dato appuntamento ai suoi fedeli seguitori al Cimitero Militare Germanico al Passo della Futa per proporre la sua versione del romanzo di Thomas Mann che giusto l’anno scorso ha festeggiato il primo secolo dall’uscita.
In cent’anni il mondo è radicalmente cambiato eppure – ed è una delle riflessioni che mi riportavo a casa sabato – sembra esattamente lo stesso di quello raccontato dallo scrittore tedesco, di cui quest’anno ricorrerà (il prossimo 6 giugno) il centocinquantesimo anniversario della nascita, nonché settantesimo della morte (il 12 agosto).

Ma è il caso di procedere con ordine. Nel weekend appena trascorso il teatro bolognese ha proposto la versione “maratona” dello spettacolo – una produzione ArchivioZeta, Emilia Romagna Teatro ERT/ Teatro Nazionale -, ovvero la messa in scena consecutiva dei suoi tre capitoli, intervallati da due intermezzi, rispettivamente di 45 e 75 minuti. Iniziata alle 15.00, la maratona si è conclusa attorno alle 22.00, con questa scaletta:
- Prima parte fino a Notte di Valpurga
- Seconda parte fino a La grande irritazione
- Terza parte fino a Il colpo di tuono
Come per ogni maratona che si rispetti, anche per questa teatrale era più che consigliabile una buona preparazione per tempo. E per tempo – tema centrale, se non IL tema per eccellenza del romanzo – mi sono allenato all’impresa, rileggendo La montagna incantata (ma io preferisco la traduzione de La montagna magica di Renata Colorni) al ritmo di cinque pagine al giorno, in modo da completarne la lettura in sette mesi. Avviata lo scorso primo settembre, questa mia impresa si chiuderà sabato 29 marzo, giusto una settimana dopo lo spettacolo.

Seduto in platea avevo dunque metaforicamente sulle spalle uno zaino carico della lettura prolungata e quotidianamente ritmata del romanzo e dell’esperienza delle precedenti tre tappe sull’Appennino. Ed eccomi di ritorno alla domanda cruciale: quanto pesa l’assenza della montagna in questa Montagna incantata? Tanto e poco, insieme. La versione maratona è, infatti, uno spettacolo diverso dall’allestimento en plein air, pur rimanendo sostanzialmente immutato.
Inevitabile è stato dunque – almeno per gli spettatori come il sottoscritto che hanno avuto il privilegio di assistere a entrambe le versioni – il gioco del confronto tra il “qui e ora” e il “là e allora”. Confesso di aver usato volutamente il termine neutro di “domanda” per mascherare quello di “dubbio” segnato da una connotazione negativa. Ma era proprio un dubbio quello che mi tormentava… All’uscita su via Indipendenza, nel cuore di Bologna, mi ero però rincuorato: la Montagna è rimasta incantata – e magica – anche al chiuso. E, gattopardescamente, Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti hanno dovuto cambiare tutto perché tutto rimanesse com’era sulla Futa.

Le tante, belle, trovate sceniche sono state adattate allo spazio dell’Arena. Qui l’illuminazione diventa fondamentale. Le scene – minimaliste – rievocano l’atmosfera onirica di 2001. Odissea nello spazio di Kubrick (così come la canzone “Midnight, the Stars and You” rimanda a Shining, in un gioco di specchi: l’hotel di Kubrick ha qualche debito verso il Berghof).
Quanto il sogno sia un tema pervasivo nel romanzo mi è diventato evidente grazie alla maratona, una versione che accentua il carattere da “musical” dell’allestimento all’aperto (su tutte le scene della danza delle sdraio e degli ombrelli). Inoltre ho notato che il pubblico ha riso di più in questa occasione, anche se i passaggi da commedia sono rimasti invariati.
Se alla Futa gli spostamenti del pubblico fanno parte dello spettacolo (di tutti gli spettacoli), tanto da costituire uno dei pilastri della sceneggiatura, in sala la compagnia si è impegnata a conservare il rapporto di vicinanza fisica con gli spettatori. Lungo lo srotolarsi delle tre parti, infatti, sono molteplici gli ingressi, le permanenze e le uscite degli attori tra le file delle poltroncine. E così è perfetta la sovrapposizione tra noi e i partecipanti delle lezioni del dottor Krokowski per il ciclo intitolato “L’amore come potenza patogena”.
Più voce in capitolo acquista il violoncello di Francesco Canfailla, a sottolineare l’importanza della musica non solo nell’allestimento ma anche, più in generale, nell’opera di Mann (un vero romanzo-enciclopedia con profonde e articolate riflessioni su filosofia e storia, scienza e medicina, politica e religione, ma anche – appunto – musica e arte, senza però trascurare il piacere per il gossip…).
Una novità è l’introduzione di filmati d’epoca in bianco e nero, in collaborazione con Fondazione Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia.
Tutti gli interpreti confermano le rispettive prove dimostrate nei tre capitoli e i calorosi applausi a fine recita sono la dimostrazione del gradimento e dell’affetto del pubblico, consapevole di aver partecipato – più che assistito – a un vero e proprio evento, anzi a una cerimonia. Una sorta di messa solenne, di requiem per la Belle Époque, che Mann aveva immaginato all’inizio come racconto, breve “riscontro umoristico” a La morte a Venezia. E invece…
E invece gli uscirono dalla penna centinaia di pagine che Sangiovanni e Guidotti hanno frequentato (e amato) per anni, assumendosi l’onere di selezionare una parte dei temi e delle storie e dei personaggi che ruotano attorno a quell’eroe borghese, “riottoso figlio della vita” che risponde al nome di Hans Castorp.
In questa intensa maratona vediamo all’opera la sua trasformazione, da quando lo scorgiamo seduto sui gradini del palcoscenico con un libro in mano tra i rumori di stazione a quando lo seguiamo, con sguardo attonito e preoccupato, sul campo di battaglia, novello Fabrizio Del Dongo. Davvero vale per lui la definizione “l’uomo è signore delle antitesi”.
Ci colpisce ancora una volta la malinconia del povero Joachim. Settembrini e Naphta duellano sul palcoscenico come alla Futa avevano fatto sul muretto del cimitero. Ritroviamo i sette tavoli della sala ristorante e la caraffa rossa del tè rifiutato perché tiepido e invece bollente. Ci riconosciamo come davanti a uno specchio in quella smania di risse a cui partecipiamo ogni giorno sui social e ci provoca brividi ascoltare che un secolo fa come oggi serpeggiava un non confessato ma diffuso desiderio di guerra…
Per tre anni sono salito d’estate al Passo della Futa per raggiungere Hans e compagni al Sanatorio Internazionale Berghof. Ma è stato qui in pianura che ho fatto più attenzione alle parole che pronuncia Settembrini all’inizio: “noi siamo esseri inabissati”. Mentre Castorp sale in quota, in realtà sta scendendo nel regno delle ombre, in una sorta di nekyia o catabasi.
Nel 2015 attraversai il piano padano per partecipare a una delle letture a puntate de La montagna incantata, ideata da Claudio Longhi con la collaborazione alla drammaturgia di Vera Cantoni, per la Biblioteca Civica Antonio Delfini di Modena.
Dieci anni dopo sono arrivato fino a Bologna per chiudere un ciclo. Ma i cicli, per loro natura, non si chiudono. Dal 27 al 30 marzo all’Arena del Sole andrà in scena la Fedra di Racine – nella traduzione di Giovanni Raboni – per la regia di Federico Tiezzi che poi sarà al Piccolo Teatro di Milano. E indovinate qual è il libro preferito di Tiezzi?
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