L’esemplare scalata di archiviozeta alla Montagna incantata di Thomas Mann

data:

01/04/2025

Testata:

Paneacqua culture

Autore:

Matteo Brighenti

Argomento

La montagna incantata – GENERALE

Un’impresa prodigiosa. archiviozeta ha preso il teatro e l’ha portato in una dimensione smisurata. Quella dell’opera-mondo. Oggi, in Italia, soltanto la compagnia diretta da Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni ha il coraggio, la visione e la sensibilità per immaginare e poi realizzare una maratona teatrale di 7 ore da un romanzo colossale come La montagna incantata di Thomas Mann. Sono statɜ allievɜ di Luca Ronconi: in loro la lezione del Maestro, a 10 anni dalla scomparsa, è più presente che mai. Ovvero, intonare la scena nel denso spaziotempo tra testa e cuore come “canto alla durata” della Storia, sofferta e profonda vastità che ci spalanca gli occhi sul presente, il nostro presente, oggi così pericoloso e incattivito.
Il Teatro di Marte di archiviozeta, quel Cimitero militare germanico del passo della Futa, Appennino tosco-emiliano, che ha accolto la prima parte nel 2022, la seconda nel 2023 e la terza nel 2024, e che è casa estiva e rifugio creativo per la compagnia da oltre 20 anni, stavolta è sceso in pianura. Fino al Teatro Arena del Sole, a Bologna, la città che già aveva ospitato La montagna incantata (prima e seconda parte) nel complesso monumentale di San Michele in Bosco all’Istituto Ortopedico Rizzoli. Il palcoscenico è arrivato, infine, per volere di adozione da parte di Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, che ha coprodotto un simile progetto.

Foto di Franco Guardascione

Il confronto con il volume di Mann nasce itinerante, come attraversamento concreto e metaforico. In teatro il metaforico certo prevale, ma il concreto non scompare del tutto. Siamo sì sedutɜ in una sala teatrale, ma siamo immersɜ nel Sanatorio Internazionale Bergof a Davos-Dorf, Alpi svizzere. Tutto è “scena di senso” per il viaggio di formazione e trasformazione del giovane ingegnere navale di Amburgo Hans Castorp. Il palco, i palchi, la platea, insomma tutta l’Arena del Sole è teatro della sua salita sulla montagna. Un’ascesa iniziata per una visita di sole 3 settimane al cugino Joachim Ziemssen, militare di carriera ricoverato per tubercolosi, e finita 7 anni dopo con la ridiscesa di Castorp per arruolarsi e combattere nella Prima guerra mondiale.
Dunque, ora è La montagna incantata stessa che si muove, ci viene incontro, o ci passa di fianco, e lo fa attraverso una moltiplicazione di piani e prospettive, come già avveniva per i ruoli. Il montaggio delle tante e diverse scene è di stampo cinematografico. Ogni quadro ha in sé come una forza espansiva, riesce a evocare ciò che ne sta al di fuori, legando quanto è avvenuto prima con quanto sta per accadere dopo. È un ambiente allucinato, pochi e suggestivi elementi scenici medico-ospedalieri disegnano uno spazio di sogno e incubo, di realtà e irrealtà, ammantato dalla partitura musicale sinestetica di Patrizio Barontini e dalle luci livide di Camilla Mazza. E quando si arriva o si esce dal Bergof, le videoproiezioni curate dalla Fondazione Home Movies – Archivio Nazionale del film di famiglia allargano l’inquadratura a un universo popolato da fantasmi, nel bianco della neve che tutto ricopre, anche il tempo.

Foto di Franco Guardascione

Il giovane ingegnere, infatti, vivrà in una sospensione che lo porterà a sprofondare dentro di sé – e noi con lui. Comincia tra parole scritte nero su bianco, due colori tra cui si dibatte l’intero progetto di archiviozeta. Mentre ancora prendiamo posto in sala, si presenta come Amleto di William Shakespeare, anche lui con un libro in mano. Giacomo Tamburini ci introduce nell’attesa del suo arrivo in treno: la qualità della sua attenzione, avanti e indietro sulle pagine di Ocean Steamship (resoconto popolare sulla costruzione dei piroscafi), ci fa capire subito che la percezione di Hans Castorp sarà la nostra. Il tempo, la vita intera al Bergof, restituita da Diana Dardi, Antonia Guidotti, Pouria Jashn Tirgan, Giuseppe LosaccoAndrea Maffetti e Francesco Canfailla al violoncello, oltre aglɜ stessɜ Guidotti e Sangiovanni, rallenterà o accelererà a seconda della sua propria sensazione. Facendo emergere, ogni capitolo di più, la malattia che ci portiamo dentro, “la malattia chiamata uomo”.
La prima parte dello spettacolo coincide con la prima parte del romanzo, fino alla Notte di Valpurga. È l’inizio della perdita dei sensi, come del sovvertimento delle stagioni: una tormenta lɜ coglie in pieno agosto. Castorp comincia a fare pensieri che non ha mai avuto, in un luogo infestato da bizzarre apparizioni, dove le malattie sono vissute come bislacche “forme d’arte”. Fanno sorridere i suoi tentativi di integrarsi – appartiene ancora un altro tempo, quello di laggiù, in pianura.
Del resto, è venuto solo in visita. È sano. Ma se è qui, deve pur essere malato. Quell’aria, infatti, ammala anche lui. Prende il raffreddore, si misura la temperatura: 37,6°. È febbre. Il dato è oggettivo, perché misurabile, e la misurazione è ripetibile. Non è grave, ma può diventarlo. Perciò, va internato. Ricordarsi che Guidotti e Sangiovanni sono tornati a Thomas Mann durante la pandemia di Covid-19 aggiunge a questa concatenazione di eventi non poca vertigine.

Foto di Franco Guardascione

La malattia del giovane ingegnere è sintomo tanto delle idee che il sereno umanista italiano Lodovico Settembrini (Gianluca Guidotti), liberale e assertore del progresso umano, gli mette in testa, quanto dell’amore che Clavdia Chauchat (Enrica Sangiovanni) gli mette nel cuore. È come se La montagna incantata, quindi, gli riconsegnasse la gioia tramite la sofferenza, gli restituisse, in definitiva, gli strumenti per vivere. Facendolo passare attraverso le sue paranoie, il suo rimosso, e il suo passato, che torna, comunque, a chiedergli il conto.
La seconda parte – fino a La grande irritazione – si apre su alcuni esercizi di cura di gruppo. Hans Castorp ora è perfettamente integrato, al punto che Tamburini fa un incredibile lapsus rivelatore. Dice che è al Bergof da «10 anni», presto corretti in «10 mesi». Un minuto qui vale un’ora, come un mese o un anno, ma è un tempo che serve a guarire o erudirsi? La domanda è legittima, poiché a Settembrini si è aggiunto un altro pedagogo: è Leo Naphta (Giuseppe Losacco), l’ascetico e violento gesuita di origine ebraica, comunista e dogmatico negatore dell’umanesimo progressista. Per Castorp guarigione ed erudizione – il corpo e la mente – devono poter andare insieme. In questo sta la libertà, sembra dirci Mann, e archiviozeta con lui.
È la stessa che pretende per sé Joachim Ziemssen (Pouria Jashn Tirgan), però giù dalla montagna. Non può aspettare la perfetta guarigione: è impossibile. Per questo, lascia la guerra della cura per la carriera di guerra in pianura. Si ammalerà, ritornerà, e al Bergof morirà. Il giovane ingegnere, invece, anche quando guarisce non intende risvegliarsi dal sogno-incubo che sta vivendo. O forse, non può, perché non vede altra possibilità al di fuori del luogo che ha dato vita alla sua ossessione insensata per Clavdia. È così totalizzante che è convinto che se resta, l’amore esiste, se parte, non esisterà più.

Foto di Franco Guardascione

Invero, la personalità di Pieter Peeperkorn, il nuovo compagno di Chauchat che soffre di una malattia tropicale, per un attimo fa uscire meravigliosamente fuor di senno il giovane ingegnere e tutta quanta La montagna incantata. Andrea Maffetti, che lo impersona e interpreta, mette in scena un impressionante deragliamento dionisiaco dai binari che portano e lasciano al Bergof. Quasi si carica sulle spalle l’intera compagnia, portandola in un sogno nel sogno, in cui la volontà di creare e distruggere è la doppia manifestazione della vitalità che esprime l’uomo padrone del proprio destino.
È un attimo, appunto, è una stella che si illumina cadendo. Ma una volta passata, niente è più come prima. I detriti incrinano quella «eterna, illimitata monotonia» che, una volta rotta del tutto, ci precipita nella terza parte, fino al capitolo finale, Il colpo di tuono, con la catastrofe della Prima guerra mondiale.
Si riparte da un altro libro, stavolta proprio La montagna incantata, in mano a Thomas Mann (ancora Maffetti) a 150 anni dalla nascita e 70 dalla morte. L’autore in persona riporta che, inizialmente, voleva scrivere un racconto breve che rispondesse, in chiave ironica, a La morte a Venezia, e che l’ispirazione viene da sua moglie, Katia Pringsheim, ricoverata a Davos per via di una malattia polmonare nell’anno in cui intraprende la stesura, il 1912. Dopo un breve riassunto delle due parti precedenti, il suo «possiamo cominciare» apre il sipario per l’ultima volta.

Foto di Franco Guardascione

Così, assistiamo a un balletto senza fine sull’abisso di annunci di guerra strillati sulle prime pagine di giornali. Tuttɜ leggono ostentatamente le stesse notizie, ma nessunǝ ne comprende appieno la portata. Al Bergof si concentrano, piuttosto, su problemi che non lo sono, si baloccano con il tè, perdono di vista la società, la Storia, richiudendosi nell’io, nell’intimità.
Il codice del grottesco, finora solamente accennato qua e là, esplode adesso con una gigantesca scazzottata per una misera questione di corna. È al rallentatore, per mostrare con la più estrema e puntuale chiarezza quanto chi abita sulla montagna sia disconnessǝ dal presente, e quanto tutta la situazione sia assurda, contro ogni logica e pure ogni buon senso. Perfino lo scontro di idee diventa una pantomima priva di qualsiasi solidità. La ritrova quando le parole non sono più possibili, con il colpo di pistola che Naphta si spara alla tempia nel “duello d’onore” con Settembrini.
È il precipizio, il vero punto di non ritorno. Quell’inaspettato scoppio ne presagisce un altro, ben più terribile: quello della Prima guerra mondiale. Hans Castorp, diventato ormai un tutt’uno con La montagna incantata, si risveglia. Quel tuono lo scuote e riconnette finalmente al tempo comune, collettivo, colmando di dura quotidianità i 5mila metri che lo staccano da terra.

Foto di Franco Guardascione

La Storia è più veloce di qualsiasi tua fuga. Ti raggiunge ovunque tu decida di scappare. Ti prende e ti tira giù insieme a lei, nel fango dell’umanità. Solo che ce ne dimentichiamo, e ogni volta pensiamo di poterne fare a meno. Per questo, abbiamo bisogno delle storie. È il «finis operis» che il Thomas Mann di archiviozeta pronuncia sul palco.
Dopo averne sentito la vera voce registrata alla BBC tra il 1940 e il 1945 per uno dei suoi brevi discorsi di denuncia e vergogna dell’ignominia nazista, termina con queste due parole La montagna incantata perseguita con rigore e inventiva da Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni. Non è la fine, ma il fine dell’opera. Non è importante, dunque, sapere se Castorp sopravviva o no – Mann non lo dice. È importante aver consegnato al teatro un libro che da 100 anni non smette di accendere il lume della ragione umana contro le tenebre della sragione diabolica. È importante, adesso, riportarlo di nuovo in vita su un altro palcoscenico. E un altro. E poi, un altro ancora.

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La montagna incantata – GENERALE

di Thomas Mann

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