Il tempo del romanzo, il tempo del teatro
21/04/2025
fatamorganaweb
Massimo Fusillo
La montagna incantata – GENERALE
L’adattamento di testi narrativi al teatro è sempre complesso, soprattutto quando si tratta di opere di dimensioni epiche, non solo dal punto di vista quantitativo. La prassi che ha dominato a lungo è stata drammatizzare ed essenzializzare: quindi ridurre la dinamica narrativa allo scambio dialogico, tagliare le parti meno importanti o focalizzarsi su alcuni episodi, come è il caso, ad esempio, di Itaca di Botho Strauss, incentrato sul ritorno del protagonista dell’Odissea. Luca Ronconi, che è stato sempre affascinato da questi problemi espressivi fin dal leggendario Orlando Furioso, smontato e disseminato nello spazio assieme a Edoardo Sanguineti, è stato il primo regista che ha iniziato a usare invece, nella sua ultima fase, la narrazione in terza persona, ad esempio nel Pasticciaccio di via Merulana da Gadda o nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Un effetto straniante, a cui però ci si abitua. Su questa linea si muovono, con la loro Montagna incantata, Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni, non a caso allievi di Ronconi, ed il loro splendido gruppo archiviozeta, con cui hanno affrontato un’altra sfida difficile di recente, Le Baccanti, ancora in scena quest’anno.
Il libero adattamento del romanzo di Thomas Mann è un progetto triennale (2022-2024) che si è articolato in parti separate, messe in scena in luoghi non convenzionali e fortemente simbolici, come il Cimitero militare germanico del passo della Futa nell’appennino tosco-romagnolo. Solo quest’anno la compagnia ha deciso di rappresentare in un teatro l’adattamento nella sua interezza, dando vita a una intensissima maratona presso l’Arena del Sole di Bologna, teatro moderno elegantemente razionalista. La scelta di spazi non tradizionali e la dilatazione dei tempi sono tratti tipici della sperimentazione teatrale soprattutto degli anni Settanta, a partire da Einstein on the Beach di Robert Wilson, fino a esperienze più recenti e più legate ai modelli letterari, come gli Hamlet’s Portraits di Antonio Latella (dieci “stazioni” dedicate ai personaggi principali del dramma di Shakespeare), o I demoni di Dostoevskij nella regia di Peter Stein, più classico nella drammaturgia e nella messinscena.
Pubblicato nel 1924, La montagna incantata (archiviozeta preferisce mantenere il titolo consolidato dall’uso, rispetto alla Montagna magica scelto da Renata Colorni per i Meridiani Mondadori) è sicuramente il capolavoro di Thomas Mann, il suo romanzo più complesso e più vicino alla sperimentazione modernista, quindi a quell’intreccio fra tempo e racconto su cui Paul Ricœur ha costruito un ampio saggio in cui fa dialogare filosofi, romanzieri, narratologi e storici, per mostrare come la narratività sia capace di configurare, rifigurare e dare senso all’esperienza umana. Mann pubblica il suo romanzo (che avrà un imprevedibile, grandissimo successo) due anni dopo la morte di Proust, che aveva pubblicato solo una parte della sua cattedrale sulla memoria involontaria, mentre l’anno successivo, nel 1925, Virginia Woolf pubblica il suo romanzo più proustiano, Mrs. Dalloway.
La maratona è la forma più adatta a un romanzo sul tempo e sulla sua magica sospensione: è una sfida per il pubblico, che si trova trasportato in una dimensione totalmente altra, in una eterotopia che è anche eterocronia. Archiviozeta dà un rilievo altrettanto spiccato anche agli altri nuclei tematici che costellano la grande opera di Mann, a partire da due esperienze che hanno segnato la svolta del modernismo: la rivoluzione epistemologica della psicanalisi e il trauma storico della Prima guerra mondiale. Tutti i grandi scrittori modernisti si sono infatti confrontati con questi due nodi, anche in forma polemica: Proust, che ancora non è un modernista (sta splendidamente sulla soglia) mostra strane consonanze con Freud, pur non conoscendolo affatto (ne parla un famoso saggio di Rivière), e inserisce alla fine della Recherche la straordinaria scena di Charlus che si fa fustigare nel bordello omosessuale, mentre risuonano i bombardamenti della guerra; ed è inutile sottolineare quanto siano importanti psicanalisi e guerra in Joyce, Woolf, Kafka, Musil. Grazie alla presenza martellante di questi due elementi, tutto lo spettacolo di archiviozeta diventa un elegiaco poema sulla morte, strettamente connesso all’altro tema portante, tipicamente manniano: la malattia. Come ha scritto Susan Sontag, appassionata lettrice di questo romanzo, la malattia è una potentissima macchina simbolica.
La montagna incantata non è solo una grande opera sul tempo: è anche un enciclopedico romanzo-saggio, che tocca innumerevoli branche del sapere. A differenza di Musil, il rappresentante più radicale di questo sottogenere, Mann non separa nettamente le inserzioni saggistiche dalle parti narrative: le intesse fra di loro con grande maestria, restando sempre nell’ambito di una solida narrazione tradizionale, sempre avvincente. Le componenti filosofiche e politiche si incarnano attraverso i dialoghi fra due personaggi antitetici, il gesuita marxista Naphta e l’umanista italiano Settembrini, interpretato nello spettacolo da uno dei due registi, Gianluca Guidotti, mentre Enrica Sangiovanni impersona il ruolo-chiave di Madame Chauchat, oggetto del desiderio ossessivo del giovane Castorp. Entrambi gli attori-registi però sono coinvolti nei tanti momenti esaltanti di coralità, in cui canto, gesto, danza e suono si fondono in una sinergia intermediale.
Lo spettacolo svolge una narrazione drammaturgica continua e completa, a differenza di quanto facevano a suo tempo i registi sperimentali di fronte a sfide simili, risolte con evocazioni e connotazioni, come il Proust (1976) e il Musil (1978) di Giuliano Vasilicò. Ciò non significa che archiviozeta non valorizzi tutti i codici non verbali che alimentano sempre il vero teatro: lo spazio nella sua profondità e nelle sue dimensioni orizzontale e verticale; i corpi, i costumi, i suoni e gli oggetti, ad esempio il grammofono, feticcio importantissimo nel romanzo, qui evocato virtuosisticamente da una serie di luci e linee.
Grazie al grammofono Hans Castorp ascolta l’Aida di Verdi, che termina con una reclusione forzata in uno spazio sotterraneo, che si trasforma in un duetto di amore e morte. In tutto lo spettacolo di archiviozeta la musica gioca un ruolo fondamentale, con un’ibridazione stilistica più ardita di quella di Mann, in una direzione che privilegia il grottesco e il tragicomico, cifre fondamentali di tutta la modernità, da Shakespeare a Kleist, da Kafka a Beckett. Troviamo così affiancati, ad esempio, una brillante canzone foxstrot del 1934, Midnight, the Stars and You, assieme alla struggente aria di Haendel Lascia ch’io pianga, che chiude il primo atto, con l’episodio delle Notti di Valpurga; un carnevale raffigurato con grande potenza espressiva attraverso movimenti spezzati che ricordano i quadri di Oskar Schlemmer, in una dimensione allucinata e onirica; la stessa che si ritrova nell’episodio sublime della neve.
A inizio del terzo atto compare Thomas Mann che ricorda l’antefatto: un’intrusione che può suonare didascalica, ma che serviva quando lo spettacolo non era un’unica maratona. Lo scrittore torna nel finale sospeso, in cui il personaggio Castor viene lasciato dall’autore al suo destino. Ascoltare subito dopo la voce di Thomas Mann che lancia il suo appello al popolo tedesco nel 1941, nel pieno della guerra, in esilio a Los Angeles, scandendo piano le parole in quel suo tedesco limpidissimo, non può non suscitare un’emozione fortissima nel pubblico, soprattutto nel momento storico che stiamo attraversando. Conclusione perfetta di uno spettacolo che ha vinto una sfida impossibile, e che ci auguriamo possa trovare nuove sedi e nuovi pubblici.
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