Vizio di forma degli Archivio Zeta al Teatro delle Moline di Bologna

Zona di transito, tempo scandito da una voce simile a quella degli aeroporti o delle stazioni di treni. L’oscurità poi inghiotte il suono del tempo che passa, il buio del sempre e del mai: un’eternità intatta e perfetta. Così inizia lo spettacolo (seppure della denotazione di spettacolo inteso come intrattenimento non vi è traccia) Vizio di forma degli Archivio Zeta al Teatro delle Moline, trasposizione della storia breve del Primo Levi meno conosciuto Procacciatori d’affari.

Lo spettacolo Vizio di forma si muove all’interno del progetto Area di Brocà, la parte del cervello preposta all’articolazione del linguaggio, difatti le prime parole sentite all’”interfono” richiamano subito la nostra attenzione su di questa zona all’interno della quale i pensieri non vengono solo pensati ma “risuonano” (come sottolineato dalla ripetitiva voce proveniente da un nessun-dove in quello che si può considerare un non-luogo) a tutti gli effetti. Si tratta di un’esperienza sensoriale quella che portano in scena gli Archivio Zeta, che coinvolge lo spettatore con suoni, luci, odori, contatto e un luogo privilegiato (le sedie sono disposte attorno alla scena). L’iniziazione, perché di questo si tratta, avviene singolarmente, con Enrica Sangiovanni che prende dalle mani di Alberto Gemmi collane intrecciate di fil di ferro e adornate da pendagli di steli di cera, e le pone, diffondendo una nenia sonora e odorosa, sul collo degli astanti… uno ad uno: contemporaneamente gioco e giogo. La cera non è un materiale a caso ma una scelta precisa degli Archivio Zeta che, dalle parole dette da loro stessi  ne Incompiuto Pilade/Pasolini di Archivio Zeta, mi risuona come familiare, eco persistente che sa di manifesto del loro fare:

Per questo abbiamo eletto il teatro a nostra forma di percezione preferita: perché comprende in sé tutte le arti, perché si modella all’infinito come cera, perché inevitabilmente svela l’umanità , l’etica e le idee di chi li fa.

Teatro, uomo e cera sembrano un tutt’uno nel modellare una dimensione che si allontana dalla rappresentazione per abbracciare la visione. Non ci deve sorprendere dunque il luogo scelto per l’evento che ha dell’orizzonte aurorale e del sottosuolo impregnato di inconsapevolezza. Qui è dove noi spettatori ci troviamo appena entrati a teatro: un ventre scuro illuminato da luci crepuscolari, di ombre ne è un incendio. Siamo entrati in un antro cavernoso dove i raggi dei fari, in alto, filtrano da scuri appena scostati. Il luogo somiglia all’utero protetto della madre che però e già esposto all’esterno, dove il nascituro troverà i suoi natali. Di questo infatti parla il racconto: la possibile nascita di un non-nato (un’anima) dentro il corpo di un uomo. Questa venuta alla luce è resa ancor più significativa dall’intreccio con il percorso di presa di coscienza dovuto alla luce, presente nell’allegoria della caverna nel libro VII della Repubblica di Platone. Questo passo, forse il più famoso di Platone, ha ispirato gli Archivio Zeta nella scelta del luogo, simile appunto a una caverna. Dalla bocca di questa caverna entra la luce che ne illuminerà il fondo dove staranno legati dei prigionieri dalla nascita capaci solo di vedere ombre. La luce arriva nel luogo più basso (il fondo della caverna), seppure in flebile sospiro, e così è nello spettacolo dove la stanza è sempre illuminata, anche quando tutti i fari si spengono, da un piccolo lumino della macchina da presa super 8 che non lascia mai lo spettatore. Quest’ultimo infatti è come un bambino nel ventre materno che vede filtrare il chiaro dall’esterno protetto però ancora dalla violenza che solo chi ha veduto negli occhi il sole conosce, la violenza che viene gettata dalla macchina da presa sul volto di Enrica Sangiovanni come fosse un bambino venuto alla luce e violentato da essa per la troppa irruenza del parto. E questa violenza vi è sia nello spettacolo che nelle brevi righe di Platone dove il prigioniero soffre, una volta liberato, al risalire la china della caverna per uscire all’esterno dove troverà la verità.

Gli Archivio Zeta però si tengono lontani dal fornire all’osservatore una qualsiasi soluzione alla vicendama anzi moltiplicano le domande spostando l’attenzione sulle zone buie del testo di Levi attraverso, non la modificazione del testo, ma la resa di scena. Questa opera uno svuotamento dell’immagine, onnipresente nel racconto leviano, dato dalla luce e dalla sua assenza nello stretto crinale che le separa: i non-nati sono sempre un volto del Giano bifronte, l’altro del quale sono i nati: l’immagine e la sua ombra.

Vizio di forma

Liberamente ispirato all’opera di Primo Levi
Di e con Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni
Teatro delle Moline, Bologna
Fino al 10 dicembre 2017