La ferita: il filo rosso di Archivio Zeta per Volterra

Massimo Marino | 26/07/2014 | Corriere di Bologna / BOblog

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La ferita: il filo rosso di Archivio Zeta per Volterra

Immaginate una città medievale avvolta da nastri rossi. Nastro rosso cinge gli alberi, nastro rosso segna una strada aerea verso il cielo sulle stradine tra i palazzi, si srotola per le strade, lambisce ristoranti, negozi. Nastro rosso scende dal carcere di Volterra e, con fischi dolcissimi emanati da piccoli tubi di plastica suonati da ragazzini pifferai di Hamelin, si srotola per le vie di Volterra fino alla piazza dei Priori, fino alla “ferita”, alla frana che in inverno ha fatto crollare un tratto di mura medievali, traccia di dolore incisa sul corpo della città, fino al luogo antico del rappresentarsi, al teatro romano. La ferita. Logos / rapsodia per Volterra è un creazione per il festival Volterrateatro di Archivio Zeta, una compagnia che si sta affermando come una delle nuove realtà importanti della scena italiana.

fotoCastorp

 

Archivio Zeta l’abbiamo visto spesso a Bologna, ultimamente: lavora sulla parola, sul mito (Iliade e Odissea) e sulla tragedia antica (Orestea) ma anche su testi moderni (Il nemico del popolo di Ibsen). Soprattutto questa compagnia interagisce con lo spazio e lo trasforma in reagente. Ricordiamo gli spettacoli ambientati in quel luogo straordinario che è il Cimitero militare germanico della Futa, le Eumenidi tra i palazzoni del Pilastro, le incursioni al museo Archeologico di Bologna. La loro qualità particolare è di far risuonare la parola poetica, scavata, analizzata, resa materica, in spazi di forte suggestione, trasformando i luoghi, rendendoli motori attivi di una drammaturgia che va a scrutare a fondo nell’umano. Sono tra gli artisti di teatro più contemporanei che ci è stato dato di vedere negli ultimi tempi: lavorano senza concettualismi, appoggiandosi piuttosto a elementi antichi come la parola scolpita, aprendo nuove prospettive al modo di guardare, e vedere, siti quotidiani carichi di una risonanza memoriale. Partono dall’idea pasoliniana di teatro di parola, civile, per raggiungere esiti originali, coinvolgenti, pieni di pensiero e emozione.

A Volterra hanno iniziato a lavorare alcuni mesi fa, in un laboratorio aperto ai cittadini e a numerose associazioni che voleva trasformare, su suggestione di Armando Punzo, in azione artistica il vulnus del crollo di quel pezzo di antiche mura. Voleva ricucire una comunità divisa, incrinata, seguendo la strada della bellezza. Si sono ispirati a una famosa performance di Maria Lai a Ulassai. Hanno proposto di congiungere i luoghi significativi di Volterra e quelli colpiti dalla frana con venti chilometri di nastro rosso, da srotolare, da rotolare per le strade, da usare per segnare strade, edifici, piazze, cieli, alberi, case, palazzi, tutto lo spazio vissuto.

 

Foto Franco Guardascione

 

Inizia dal carcere della Fortezza, dopo la fine del meraviglioso spettacolo di Armando Punzo, Santo Genet, con un suono di fischietti, sottile, penetrante, e i primi rotoli di nastro che scendono verso la strada principale. Il corteo arriva nella piazza centrale, guidato sempre dalle musiche inventate da Patrizio Barontini, mago del suono dal vivo, senza amplificazioni, con elementi naturali. E qui nastri scendono dal palazzo del Comune, dagli altri edifici della piazza, mentre un coro fa risuonare lentamente vocali, le distende, le porta a vibrare con gli spettatori, che si intrecciano, si legano, battono sassi bianchi sul selciato in sommesso pigolio di protesta. Mentre dicono parole del monaco bruciato vivo in un’altra piazza, Giordano Bruno, sui vincoli, i sottili fili tra le cose, l’anima, l’uomo, la memoria, e l’amore che i vincoli accende, rinfocola, nutre.

 

Foto Stefano Vaja

 

Bambini, donne, ragazzi, gruppi teatrali e di danza, gli sbandieratori del Palio storico, tutti quelli del laboratorio, a voce nuda, lanciano brevi frasi dal De vinculis, una sfida che tiene la piazza sospesa, intrecciata, in un silenzio carico, irreale e religioso, che crea legami, con quel nastro-labirinto, richiesta alla comunità di ritrovarsi, di riunirsi, di far scoccare una scintilla tra l’oggi, ferito, la memoria, il futuro.

 

Foto Stefano Vaja

 

L’azione si snoda verso la frana. È accolta da due trombe, sul tramonto sulla val di Cecina. Tutti si schierano, quelli del laboratorio. Di spalle agli spettatori, guardando il sole, evocano la furia della natura con altre parole antiche, guizzanti e rocciose, di Leonardo da Vinci, Il diluvio, tempeste, terremoti, furia distruttrice della natura. Da una parte si vede la gru che sta ricostruendo. Sul muretto, alla fine, rimangono i sassi bianchi: offerta votiva perché la città rinasca.

 

Foto di Stefano Vaja

 

E riprende il corteo, si snoda la ragnatela, verso il finale, al teatro romano. Siamo tutti schierati sul muro che domina dall’alto la cavea e i resti dei paraskenia. Deve risorgere il tempio, dal caos, dalla corruzione che sgretola perfino le mura più solide, dal labirinto costruito per chiudere la furia del Minotauro, deve rinascere la città. Questo dicono più o meno le parole di Vincenzo Consolo (L’olivo e l’olivastro). Ma non le sentiamo, non le distinguiamo, quasi. O forse le percepiamo solo dentro. Siamo centinaia, forse un migliaio. Entusiasti. Commossi. Alcuni bendati di rosso. Tutti legati. I tamburi degli sbandieratori in basso, nel teatro, battono un tempo cupo. Abbiamo ancora nel cuore la città, gli slarghi e i vicoli attraversati. Cogliamo questa forza di stare insieme, questa magia che il teatro ha ricreato, di unire, di proiettare. La memoria è futuro. Il segreto è cercare vincoli: la forza che li annoda è l’amore.

 

Foto di Stefano Vaja

 

Foto di Stefano Vaja

 

Il prossimo appuntamento con Archivio Zeta è al Cimitero militare germanico della Futa dal 2 al 17 agosto con Gli ultimi giorni dell’umanitàda Karl Kraus.

La fotografia di apertura è di Franco Guardascione