“All’Arcadia non si ritorna”. Vizio di forma di Archivio Zeta

Ilaria Rossini | 22/12/2017 | Teatro e Critica

Archivio Zeta ha presentato al Teatro delle Moline di Bologna, all’interno dei lavori del Cantiere Primo Levi, Vizio di forma, tratto dalla omonima raccolta di racconti di fantascienza. Recensione

foto di Franco Guardascione

Era il 1971 quando – per Einaudi, nella collana «Coralli» – usciva Vizio di forma, una raccolta di venti racconti fanta-tecnologici e fanta-biologici di Primo Levi, scritti tra il 1968 e il 1970. Nel risvolto di copertina, anonimo ma da molti attribuito allo stesso Levi, si legge: «Mentre metà del mondo attende ancora i benefici della tecnica, l’altra metà ha toccato il suolo lunare, ed è intossicata dai rifiuti accumulati in pochi lustri: ma non c’è scelta, all’Arcadia non si ritorna, ancora dalla tecnica, e solo da essa, potrà venire la restaurazione dell’ordine planetario, l’emendamento del vizio di forma. […] È questo il clima in cui, letteralmente od in ispirito, si collocano i venti racconti di Primo Levi che presentiamo […] vi si respira un’aura di tristezza non disperata, di diffidenza per il presente, e ad un tempo di sostanziale confidenza per il futuro: l’uomo fabbro di se stesso, inventore ed unico detentore della ragione, saprà fermarsi a tempo nel suo cammino verso l’occidente».

Questa chimerica speranza – che alla condanna della tecnologia preferisce uno sguardo cosciente della propria intrinseca ingenuità ma non per questo restio – altera il tratteggio filosofico sotteso alla scrittura distopica, lo vela di malinconia e lo rende più frastagliato e ambivalente.
Farsi carico del grigiore e dell’enigmaticità di queste piccole soglie, stabilire un linguaggio capace di raccontarle, sembra essere il desiderio sotteso all’operazione condotta da Archivio Zeta in Vizio di forma, uno spettacolo che – elaborato all’interno del Cantiere di ricerca Primo Levi – si pone come tassello di un’azione più vasta, quella di Areadibrocà, un progetto che, come spiegano le note di regia, ha l’obiettivo di «lavorare sulla relazione tra linguaggio, suono, voce, discorso, pensiero». L’ambizione di questo intento – quasi traduzione in forma di fenomeno scenico di un’indagine che si misura con le prassi delle neuroscienze – trae, dalla pagina di Levi, un materiale di partenza congeniale.

foto di Franco Guardascione

Il Teatro delle Moline di Bologna si apre come un piccolo antro, il silenzio del buio è sferzato dagli scatti del super 8 manovrato da Alberto Gemmi, mentre – nelle striature di luce proiettate sul fondo della scena – si muove, maestosa e aggraziata, Enrica Sangiovanni, i volumi scolpiti del volto che si prestano al gioco luministico acquisendo una densità ipnotica. Di lì a poco si presenterà come un «funzionario del pianeta Terra» – il racconto dal quale la pièce prende le mosse, incrociandolo con le suggestioni provenienti dalle raccolte poetiche, è Procacciatori d’affari – impegnato nella delicata operazione di «infilare le anime nei corpi». Il pubblico viene, fin da subito, inscritto nella partitura scenica: Sangiovanni, assistita da Gemmi, appende al collo di ogni spettatore una sottile lastra di rete metallica rivestita di cera d’api. Questa azione, non ancora giustificata drammaturgicamente, svolta in un silenzio intatto (cura degli interpreti è agire con una lenta cautela che vuole quasi annullare il gesto a livello acustico) e intensificata dal buio e dall’odore dolce e ancestrale dei pollini, acquisisce la suadenza e lo statuto del rito, trasportando in un regime di tempo dilatato.

Ciascuno spettatore è un «non nato», un’anima che attende e teme l’incarnazione e la Terra – osservata da questo inquietante limbo, l’esile galassia del pre-vita – è un pianeta felice, descritto con un linguaggio tecnico e visionario. Certo, fustigato da qualche ingiustizia priva di fondamento biologico, corrotto da un imprecisato vizio di forma che ne altera i destini, però popolato da un’umanità affascinante, punteggiato di habitat favorevoli alla vita, graziato dalla sperimentazione di «un programma di pace apparente», decorato dai movimenti lunari.
Sarà Gianluca Guidotti a ergersi dalla platea, convocato quale anima eletta, destinata al salto annientante della nascita, mentre sopra di lui, appesi a lunghi ganci sottili, oscillano un cuore, un cervello e una penna – «ci si scrivono centomila parole» – (gli oggetti sono di Francesco Fedele), la dotazione elementare per una accorta condotta terrestre che, accanto a sentimento e raziocinio, non dimentichi il dovere della testimonianza.
Mentre lo scatto di invisibili diapositive – raccontate dalla voce metallica e rapsodica di Enrica Sangiovanni – evoca un campionario di bellezze estetiche umane, rigettando in modo inquietante l’apparizione della sofferenza (le immagini della guerra e della fame sono scivolate per errore nel catalogo), sul corpo di lui, agitato da una furia dolorosa, lampeggiano le proiezioni di una pellicola, alterata dai colori dell’acido, che racconta un’altra storia: si tratta – ma lo scopriremo solo al termine dello spettacolo – di un girato francese degli anni ’70 che documenta la vita, i ritmi delicati e alieni, in un centro di salute mentale giovanile.

foto di Franco Guardascione

Questo breve resoconto rende una parziale giustizia alla densità di una narrazione – drammaturgica e visiva – costruita sull’interrelazione di diverse matrici. Il racconto di Levi è il tessuto di partenza sul quale vengono trapiantati altri materiali, aggiungendo piani di lettura: la ricerca scenografica che evoca la tenebra del mito platonico della caverna, l’ascendenza pasoliniana – il riferimento è a Il Vangelo secondo Matteo –del videomapping sul corpo, il richiamo alla dedizione di Levi per l’arte materica, il fortuito dialogo tra immaginari distanti avviato dalla decisione di utilizzare il girato di repertorio (Gemmi ha spiegato di aver recuperato il video in modo quasi casuale, attraverso un amico), il nesso analogico tra nascita e suicidio, direttamente prelevato dalla pagina di Erewhon di Samuel Butler.
Questa ricchezza di riferimenti ma soprattutto le modalità della loro combinazione vanno nella direzione dei linguaggi del teatro espanso, percorrendo il sentiero cangiante e poco esplorato della scrittura fantascientifica di Levi che si presta a sviluppare il potenziale “osmotico” tra cultura umanistica e cultura scientifica: a imperniare i racconti di Vizio di forma è infatti un complesso sincretismo tra malinconia storica, documento, trasfigurazione distopica e elogio futuristico della chimica.

foto di Franco Guardascione

Il dialogo, al quale abbiamo assistito al termine della pièce, con lo studioso Francesco Cassata – l’ultimo di una serie di incontri “a margine” che hanno accompagnato le repliche bolognesi – ha aiutato a mettere a fuoco un altro punto cruciale che Sangiovanni e Guidotti si portano fin dentro la scelta del nome del loro collettivo, cioè il problema italiano del rapporto con gli archivi: spazi di sepoltura di documenti semi-dimenticati ma anche giacimenti sensibili e interrogabili (con le cautele della filologia coniugate alla ricerca di linguaggi nuovi, modulati sulle scoperte), soprattutto sedi dell’instaurazione di un tempo altro, virtualizzato e rallentato in funzione immersiva.
Si tratta, in definitiva, di un lavoro – questo portato avanti da Archivio Zeta – davvero arduo, votato alla complessità ma responsabilmente esplicato, quasi a definire una dimensione ulteriore di ricerca che prolunghi, nell’incontro con il pubblico, l’interrogazione dei materiali portati in scena.

Se, durante la rappresentazione, il rischio sembrava quello di percorrere i bilici di una discorsività affascinante e colta ma a volte auto-riferita, l’attenzione devota con la quale sono stati curati gli spazi di disambiguazione e approfondimento – definiti dai due artisti «parte integrante dello spettacolo» – sana questa titubanza, inducendo a spostare l’angolo di visuale per osservare l’esperimento di un’operazione drammaturgica davvero altra.
Senza escludere la possibilità che il futuro di Vizio di forma vada in direzione di un approfondimento serrato della combinazione degli elementi che tenti di assottigliare la necessità esegetica – proiettando in forme più implicite e sfumate ma ugualmente risonanti le tante matrici – la forza del lavoro di Archivio Zeta va comunque cercata nel coraggio di abitare quella zona ambigua nella quale, complice l’azione arbitraria del presente, la parola poetica si rinnova per trasfigurazione.

Ilaria Rossini

Teatro delle Moline, Bologna – dicembre 2017