I 15 anni di Archivio Zeta al Cimitero Militare sul Passo della Futa

Emanuele Alpi | 08/09/2017 | Il nuovo Diario Messaggero

Tra Eschilo, Shakespeare, Pasolini e Cortàzar le colline del Mugello e del Santerno si trasformano ogni agosto in un teatro a cielo aperto. Così i classici greci e moderni raccontano la contemporaneità

PROLOGO – «Non uccido te ma le tue imprese, l’eco delle tue imprese» (Teseo)

Natale 1829, Ankershagen, piccolo villaggio della Confederazione germanica. Heinrich Schliemann, otto anni, riceve in regalo dal padre la Storia universale per /ragazzi ed Ivi illustrala trova una vivida raffigurazione: Enea, sulle spalle il padre Anchise e per mano il piccolo Ascanio, che fugge dalla Porta Scea mentre sullo sfondo Troia brucia in fiamme. Troia è scomparsa – dice il padre – nessuno l’ha mai vista, lo la ritroverò – promette il fanciullo – la riporterò alla luce.
Quarant’anni dopo, Schliemann scava le rovine della città incendiata e convince il mondo della sua esistenza. Il sogno giovanile di scoprire i luoghi degli eroi omerici è realizzato, l’eco della sua impresa giunge fino a noi. Per un mero scherzo del destino, non sarà lui a portare alla luce le rovine del Palazzo di Cnosso sull’isola di Creta, ma Sir Arthur Evans agli albori del Novecento.

PARODO – «Il mio sangue sa di oleandri, mi scorre tra le dita pieno di piccoli soli in movimento» (Minotauro)

Dal 5 al 20 agosto scorsi, sui crinali appenninici che corrono lungo il confine che divide EmiliaRomagna e Toscana, all’orario crepuscolare in cui il movimento del sole lo conduce a lambire le colline del Mugello e del Santercondo Palazzo di Cnosso, con annesso labirinto. Non a livello del mare, come l’originario cretese, ma al di sopra di 952 metri, in un punto preciso sulle cartine topografiche: il Deutscher Soldatenfriedhof Futapass, il Cimìtare militare germanico sul Passo della Futa.
Tra le sovrabbondanti peculiarità che possiede questo luogo, dal 2003 se ne è aggiunta una: ogni agosto cambia vestigia. Oggi Palazzo di Cnosso, ieri proprio la Troia omerica scoperta da Schiiemann (sotto le cui mura Achille, devastato per la morte del compagno Patroclo, uccide Ettore), oppure la Argo eschilea (dove Clitemnestra ed Egisto assassinano Agamennone), la Vienna dei primi del Novecento (sfondo dei deliri allucinati della Grande Guerra), la Scozia medievale (nella quale tre streghe preconizzano a Macbeth il suo futuro da re).
Sono ormai 15 anni che il Cimitero, in estate, ascolta le parole scritte 2500 prima da Eschilo, oppure quelle di Sofocle ed Omero, Karl Kraus, Shakespeare, Pasolini e quest’anno, per la prima volta, Julio Cortàzar. E non le ascolta per caso. Il merito è di Archivio Zeta, associazione culturale di produzione indipendente di teatro e cinema, nata nel 1999 e con sede a Firenzuola, che dal 2003 ha eletto questo luogo come topos ideale per parlare alla contemporaneità attraverso i classici.

I EPISODIO – « Vieni, fratello, vieni, finalmente amante!» (Arianna)

Archivio Zeta formalmente, nella sostanza Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni, attori e registi, cuori pulsanti di un teatro taumaturgico, allievi ad un tempo della scuola analitica e strutturalista di Luca Ronconi e del cinema/teatro rigoroso, essenziale e politico fatto in Toscana da JeanMarie Straub e Daniele Huillet.
Partigiani ed artigiani della Parola, Guidotti e Sangiovanni possedevano, sottopelle, il desiderio di un teatro civile, sulla scia di Brecht, Pasolini, Bernhard, un teatro della memoria e della storia che vegliasse con sguardo ancillare alle sorti della comunità. Un teatro politico, perché visto con i medesimi occhi con i quali lo guardava la comunità ateniese della pòlis: «nello stesso tempo rito sacro e civile» affermano, «dibattito ideologico e riflessione collettiva a cui partecipavano, spesso a spese dello Stato, tutti i cittadini». Nel 2002, fuggono da Milano per vivere sull’appennino tosco-emiliano, spinti a cercare un luogo dove prima non vi fosse mai stato teatro. Scoprono per caso il Cimitero e ne vengono folgorati; «non cercavamo un palcoscenico ma spazi rassicuranti, qualcosa che ci buttasse nell’agorà, senza barriere tra il pubblico e l’attore».
Al Cimitero militare germanico di barriere non v’è ombra, ma è solamente sul finire dell’estate che il genius loci concede il suo benestare alla mutazione: da sacrario a teatro a cielo aperto, al quale decido di recarmi in pellegrinaggio per assistere, assieme a centinaia di amanti di Archivio Zeta, alle gesta di Teseo e del Minotauro imprigionato.

II EPISODIO – «C’è solo un mezzo per uccidere i mostri: accettarli» (Minotauro)

Venerdì 11 agosto, nel martirologio il nome, tra gli altri, del Beato Giovanni Giorgio Rehm: nel 1974, incarcerato su di una nave, non smise di invitare alla speranza i suoi compagni di prigionia, fino alla morte. Quantomeno una curiosa coincidenza.
Parto in macchina e risalgo la Strada Montanara nei suoi morbidi tornanti, tra conifere, abeti rossi ed aceri montanari. Giunto alla Futa, scorgo un elemento artificiale, alieno al paesaggio attiguo: è la cuspide del Cimitero, che sovrasta e svetta. Mi ricorda il monolite ossidianeo sotto la cui ombra Kubrick fa compiere ai primati il primordiale salto evolutivo in 2001: Odissea nello spazio. Chi progettò questo luogo, parimenti, si augurò un’evoluzione speculare per il genere umano: «i cimiteri dì guerra sono luoghi del dolore, della commemorazione e del perenne ammonimento».
Come Minosse commissionò a Dedalo la costruzione del meandrico labirinto, lo Stato tedesco incaricò l’architetto Dieter Oesterlen della costruzione del più grande sacrario di guerra tedesco in Italia. Venne scelta una collina in particolare, la più alta del Passo della Futa, testimone nel 1944 della sanguinosa “ritirata combattuta” delle armate naziste voluta da Albert Kesserling, fiaccate a Nord dai partigiani ed incalzate a Sud dagli Alleati, che dalla Sicilia erano giunti fino allo sbarramento della Linea Gotica, quei 320 km di fortificazioni difensive che tagliavano la penisola dalla provincia di Massa Carrara a quella di Pesaro e Urbino. Oesterlen lo concepì come intervento di architettura nel paesaggio, scevro di ostentazione e solennità: «volevo semplicemente evitare la monumentalità rimodellata ed il pathos eroico falsificato». È un’infinita spirale di oltre 2000 metri di muro, che scaturisce dall’entrata del Cimitero, si dipana fino al cortile commemorativo ed alla cuspide di pietra serena, ospitando nel proprio ventre un coacervo di lapidi: 16.000 lastre di granito di eguali dimensioni e tutte orientatea valle. Un placido mare in bonaccia, privo di elementi verticali, quasi a costituire un’antinomia tra maniacale ordine teutonico e quel caos infernale che sugli Appennini strappò l’esistenza ai 31.000 giovani soldati oggi sepolti sotto lapidi che, spesso, hanno un nome da commemorare, a volte appartengono ad “unbekannten deutschen soldaten”, soldati tedeschi senza nome, ed ogni tanto non contengono niente. Rimangono in attesa di un proprietario, che ogni anno, immancabilmente, assume le sembianze di un sacchetto lascialo davanti ai cancelli del cimitero da chissà quale viandante dei boschi: le montagne hanno restituito i resti terreni e perituri di un nuovo milite ignoto. E in questo scenario, tangibilmente gravido di pathos, che il Minotauro di Julio Cortàzar e di Archivio Zeta ha atteso per sedici giorni consecutivi, al calar del sole di agosto, l’approdo del suo pubblico ateniese.

III EPISODIO – «Chi sei tu che mi scagli la tua acida freccia a così pochi passi dalla morie?» (Minosse)

Ma chi è Julio Cortàzar, questo scrittore nato nel 1914 a Bruxelles, sei giorni dopo l’entrata in città dell’esercito tedesco? Considerato, dai più, come il maestro del fantastico, è stato uno scrìttore estremamente poliedrico, cimentandosi con racconti, romanzi, poesie, fumetti e teatro. Nel 1980 tenne alcune lezioni sulla sua letteratura all’Università di Berkeley; nella seconda, sul racconto fantastico, spiegò come funzionava la sua ispirazione: «mi capita di distrarmi, e attraverso questa distrazione irrompe quel qualcosa che poi dà questi racconti fantastici».
Così capitò che nel 1947, a Buenos Aires, sull’autobus che lo riportava a casa, vide il Minotauro come una vittima del potere e Teseo come il guardiano e il difensore di tale potere. Sceso da quell’autobus, in poche ore partorì I Re (Los Reyes), che, celata sotto le spoglie della rivisitazione teatrale del mito greco, è un’acuta e vivida riflessione sul potere, tema costante presente nella letteratura latino-americana.
Archivio Zeta ha fatto rivivere I Re attraverso scelte stilistiche ben precise: luce esclusivamente naturale; scenografia esigua e famelica; veci praticamente mai adiuvate da strumenti artificiali; sei postazioni nelle quali gli spettatori, attraverso una moderna via crucis e mutuando il concetto di pubblico che ha Peter Brook, vengono esortati a comprendere che muoversi coincide con mettere in discussione il proprio punto di vista. Da una parte scorgono Minosse (un Ciro Maselia enorme), idiosincratico e tremebondo re di Creta, dall’altra Teseo (Gianluca Guidotti), ieratico e risoluto delfino di Atene, che al pari del Teseo di Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò è ebbro di un’avidità che travolge tutto, anche le sorti del proprio padre Egeo. Ai margini di questa contesa, Arianna (Enrica Sangiovanni), apatica e tormentata figlia che in sé sente pulsare il «sentimento della libertà creatrice». Sopra a tutti loro, il Minotauro, vittima socratica degli ingranaggi del potere: lui andrà a loro sarà diretto verso ciò che è meglio, «è oscuro a tutti tranne che al Dio».

ESODO – «Tacete, tacete tutta Ma non vedete che è morto?» (Citarista)

Risalgo in macchina, dopo un paio d’ore in cui Archivio Zeta ha fagocitato tutte le mie attenzioni. I pensieri scorrono in un’epistassi di emozioni. Rifletto riguardo a ciò che scrisse Pablo Neruda: «leggi Cortàzar e saprai da cosa ti sei salvato, ignoralo e sarai condannato». Il respiro e le pulsazioni sono esattamente quelle dei sopravvissuti, mentre nelle orecchie continua a fluire la voce all’olio di oliva di Juan Cedron e le note di Edgardo Cantòn In Java, quel tango di vorticosa libertà scritto dallo stesso Cortàzar. Ed è esattamente libero che mi sento: sono stato offerto, assieme a centinaia di validi ateniesi, alla mercé del Minotauro, ma lui ci ha risparmiato.
La mia mente vola, così, a Z – L’orgia del potere, quella superba pellicola di Coste-Gavraschenel 1969 vinse l’Oscar come miglior film straniero; vola a quella didascalia finale con la quale lo spettatore veniva informato su come i militari che tennero in scacco la Grecia a cavallo degli anni Settanta, durante la Dittatura del colonnelli, proibirono Sofocle, Eschilo, Aristofane e Socrate, la stessa Grecia sui muri della quale, a seguito dell’omicidio del deputato Gregoris Lambrackis, si poteva scorgere la lettera Z vergata in segno di protesta: in greco antico significava «è vivo».
Oggi Archivio Zeta non è morto, è vivo, e fa vibrare le corde dei nostri cuori con gli antesignani della tragedia greca e non solo: Sofocle, Eschilo, fino a Cortàzar.
Lunga vita, allora, ad Archivio Zeta!